Recensione di “Ombre sull’Hudson” di Isaac B. Singer
New York, alla fine degli anni Quaranta, è allo stesso tempo un rifugio e una prigione. Agli occhi di un gruppo di ebrei sopravvissuti all’immane tragedia dello sterminio nazista la città offre protezione, sicurezza, finanche riposo, mai i suoi silenzi, la sua tranquillità apparente, la distanza quasi incolmabile (eppure non sufficiente) che la divide da quell’Europa d’incubo dove si accumulano milioni di cadaveri, dove la guerra appena conclusa tortura incessantemente i corpi e le anime di coloro che sono scampati ai suoi artigli, restituiscono l’eco degli orrori perpetrati e subiti e con esso la scandalosa, radicale assenza di qualcosa che possa anche solo somigliare a una ragione, a un perché, a un disegno, a una volontà per quanto oscura e indecifrabile.
New York, alla fine degli anni Quaranta, per chi ancora vive e respira, e grazie a questi semplicissimi atti di ribellione rifiuta, addirittura nega, la micidiale meccanica dell’annientamento hitleriana, è il lacerante enigma di Dio, è il cono d’ombra dentro il quale scompaiono la sua razionalità e la sua bontà, è il sogno cieco, svuotato di ogni significato, di chi chiude gli occhi per sfinimento ma ha ormai perduto per sempre la capacità di addormentarsi. È in questa città insieme generosa, amica e incolore, tra queste strade sorelle ed estranee, nel ventre di case accoglienti e distanti che Isaac Bashevis Singer ambienta Ombre sull’Hudson, romanzo di cupo splendore, implacabile cronaca di una deriva esistenziale che è forse la sola eredità possibile per coloro che non si sono arresi alla morte. Attraverso una scrittura di straordinaria potenza espressiva, nel dettaglio dolorosissimo di ritratti psicologici compositi, dove la memoria delle atrocità di ieri si scontra con il bisogno quasi assoluto di oblio del presente, del momento vissuto qui e ora, e la sfiancante ricerca di Dio rischia di giungere fino al confine impossibile della sua negazione, fino alla selvaggia, scomposta, blasfema e razionale revoca in dubbio della sua onnipotenza, fino all’immaginazione febbrile e perversa che vede nel Dio degli ebrei l’accondiscendente spettatore della loro distruzione, un idolo sordo alle loro grida d’aiuto, alle loro suppliche, alle mani tese, alle candele accese, ai libri di preghiere consumati dall’uso, e ancora oltre, a un’idea di uomo che non ha più nulla di umano, Singer mette in scena la sconfitta di ogni speranza. “Penso […]. A donne torturate, bambini arsi. Non intendo l’aspetto morale del fatto, non sono così ingenuo. Ma mi interessa la psicologia: che cosa passa per la mente quando si infila un bambino in forno? Si dovrà pur pensare qualcosa; si deve persino trovare una giustificazione. Ma che cosa passa per la mente? Dopo, che cosa si dice alla moglie, alla fidanzata, ai genitori? Come fa un uomo a tornare a casa da moglie e figli e dire: oggi ho bruciato cinquanta bimbi? E che cosa risponde la moglie? A che cosa pensa un individuo del genere quando finalmente posa la testa sul cuscino? Vorrei soltanto sapere come funziona la mente di simili malvagi”.
Nel microcosmo di una famiglia e di una cerchia di conoscenze e amicizie, i moti dell’animo, le passioni, i tradimenti, le fedeltà rinnovate, i desideri, le disillusioni, la caparbietà sorda che spinge verso il domani chi è già stato quasi del tutto consumato dall’assenza di pietà dell’oggi, la necessità di credere, nonostante tutto, a ciò che altri prima di noi hanno creduto e nel cui solco noi, seppur faticosamente, camminiamo, Isaac Singer disegna, con indimenticabili accenti di sofferenza, il brulicare folle dell’uomo nel mondo, il suo frenetico appigliarsi a qualsiasi miraggio, a tutto ciò di cui dovrebbe essere fatto il vivere ma che la vita stessa per prima, nel suo trascorrere, deturpa: l’amore passionale e quello filiale, l’importanza delle relazioni, l’eternità delle generazioni incarnata nei figli, l’affetto nei confronti dei propri cari, i sacrifici fatti in loro nome, il crudele svanire delle aspettative… In un ipnotico girotondo di anime che ha per approdo la solitudine irrimediabile del nulla, Isaac Singer lascia che gli uomini e le donne del romanzo vaghino a caccia di un sé autentico perduto per sempre; ai suoi personaggi, archetipi del fallimento – il principale protagonista, l’uomo d’affari Boris Makaver, uomo non colto ma amante della Torah e del sapere che viene da Dio, l’inquieta figlia Anna, il marito di lei Stanislaw Luria, e l’uomo che crede di amare davvero, Hertz Dovid Grein, un tempo suo precettore, uomo di intelligenza superiore smarritosi tra i misteri della fede e la sapienza sempre insufficiente degli studi secolari – egli dona, nello scintillio di una prosa che lascia senza fiato, la sola cosa di cui può disporre: un lucido sguardo carico di compassione.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Tea, è di Mario Biondi. Buona lettura.
Quella sera gli ospiti erano riuniti nell’appartamento di Boris Makaver, nell’Upper West Side. Il palazzo di abitazioni dove aveva appena traslocato gli ricordava Varsavia.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.
stupendo ed esauriente commento di un capolavoro di cui è difficile fare un’analisi tanto è carico di tutto e dove è difficilissimo trovare valori che aiutino a vivere dopo che questi sono stati tutti distrutti e calpestati senza trovarne anche la più semplicistica, futile e ingenua motivazione.
Buongiorno e grazie del tuo benevolo commento. Concorso sul fatto che questo romanzo sia un capolavoro, probabilmente il migliore di Singer. Spero vorrai continuare a seguire il blog.
Un caro saluto
Paolo