Recensione di “Normance” di Louis-Ferdinand Céline
Il tempo dilatato dal ricordo, il passato, cicatrice della memoria, l’ossessivo ripresentarsi di quel che è accaduto trasfigurato di volta in volta dalla rabbia, dal delirio, dal desiderio, dalla paura, dalla volontà caparbia di non arrendersi, di non tradire se stessi. Più di qualsiasi altro scrittore, Céline ha reso letteratura la propria vita, ha donato al suo spirito indomito e malato il miracolo irripetibile di un linguaggio multiforme, fiammeggiante e tragico, capace di affacciarsi al sublime e di tossire roco come una bestemmia masticata a mezza voce, talmente coraggioso da riuscire a smascherare la verità (anche la più atroce, anche la più meschina) e nello stesso tempo così intossicato da se stesso, dalla propria delirante grandezza, da sprofondare in incubi grotteschi.
Normance, un assoluto capolavoro di scrittura, pubblicato da Gallimard nel 1954, segna una tappa importante nel percorso artistico ed esistenziale del grande scrittore francese. Più di Viaggio al termine della notte e di Morte a credito (le sue opere più note), infatti, questo romanzo mette al centro l’uomo Céline e insieme lo smembra, riducendolo ad attore tra gli altri (o meglio a spettatore) di un evento esterno: la guerra.
Ruvido strillone, imbonitore infaticabile, imprevedibile “testimone chiave” della storia, Céline dà vita a un teatro dell’assurdo che è la cifra più autentica del vero; l’azione su cui si concentra il testo è il bombardamento di Montmartre dell’agosto 1944 (anche se l’ambientazione è ridotta a un palazzo di Rue Girardon, quello in cui abita l’autore): gli aerei, il fuoco, la devastazione, il panico. Gli elementi narrativi sono tutti qui, la realtà dei fatti viene presentata per quel che è, incontestabile, ineludibile, ma è sufficiente cominciare la lettura perché ogni cosa, ogni dettaglio, perda consistenza, si faccia indistinto e, come creta, si trasformi incessantemente, docile burattino mosso dal suo geniale creatore. Ed ecco che il sopraggiungere dei bombardieri (che Céline chiama fortezze) con il loro carico di ordigni diviene un impossibile minuetto, una danza – macabra, certo, sanguinosa, ma pur sempre una danza – malignamente orchestrata da Jules il pittore, colpevole di aver tradito l’amico (l’io narrante) seducendogli la moglie: “Era vero, assolutamente esatto! Li faceva riaffluire dal Sud… da sopra Bercy… venivano ai suoi gesti! piombavano!… venivano tutti!… li intruppava dalle nuvole… e scaricavano tutto sopra di noi!… trombe! cataratte!… fiotti gialli… giunchiglia in principio… trombe che svoltavano al suolo: verdi! azzurre!… ogni grosso soffio… la sua gondola s’impennava… e lui si riafferrava!… volte! giravolte!…”.
Ridotta a un cumulo di macerie dall’attacco alleato, violentata tanto dalle esplosioni quanto dall’ormai impotente crepitare della contraerea, Parigi è la trasparente, dolentissima metafora degli uomini che la popolano, di chi cerca in tutti i modi possibili di salvarsi la vita, delle menzogne, delle viltà, degli egoismi delle piccole e grandi tragedie individuali che in un infernale eterno ritorno segnano le esistenze di tutti e che l’emergenza della guerra, il sopraggiungere improvviso della morte, rende solo più frenetiche, più facili. E Céline, cronista impietoso dell’animo umano, osserva e registra; libero dall’imperativo morale dell’imparzialità (perché la verità di quel che sono gli uomini è lì, davanti a noi, è sufficiente volerla vedere), racconta senza freni; sputando fiele sui sogni piccolo borghesi di alcuni – “Vi prendo i Lutry… che manchi un occhio all’uno… il naso all’altra… una chiappa alla figlia… li vedo comunque lassù, alle nuvole a ricostituirsi un «interno»… forse anche ad ingrandirsi, visto lo Spazio… una stanza o due di più?… sognavano, lo so, un salotto… lo hanno forse?” – giudicando altri, tutti gli altri, gente che non è possibile amare, per quanto ci si sforzi di farlo, per la quale non può esserci pietà, commozione. Le bombe non li hanno costretti a dare il peggio di sé, hanno soltanto spazzato via l’ipocrisia dietro la quale si nascondono.
Normance è un libro splendido (e una menzione è d’obbligo per la meravigliosa, entusiasmante traduzione di Giuseppe Guglielmi per Einaudi); la sua bellezza è feroce, selvaggia, e non lascia spazio alla speranza. Ancora una volta Céline si dimostra impareggiabile conoscitore d’uomini. È vero, non dobbiamo accettare tutto quel che ci dice, ma non possiamo prescindere da quello che mostra.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Raccontare tutto questo dopo… è una parola… è una parola!… Si ha, comunque, l’eco ancora… brroumn!… la capa ti oscilla… anche con sette anni passati… la zucca!… il tempo non è niente, ma i ricordi!… e le deflagrazioni del mondo!… le persone che si sono perse… le pene… i compagni sparsi… gentili… malvagi… smemorati… le ali dei mulini… e l’eco ancora che ti scuote… sarei scagliato nella tomba insieme!… Porco di un vento! ne ho piena la testa!… pieno lo stomaco… Brrroum!….
Peccato che questo libro non si trovi più in commercio. Una vero scempio per gli appassionati. Una manna per i mercanti.