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Ignotus par ignotius

Recensione di “L’opera al nero” di Marguerite Yourcenar

Marguerite Youcenar, L’opera al nero, Feltrinelli

Il XVI secolo mirabilmente raccontato da Marguerite Yourcenar ne L’opera al nero è un mondo in bilico, un mondo che sembra prossimo al risveglio, aperto alla modernità della scienza e alle sue rivoluzionarie conquiste e nello stesso tempo ancora legato alle suggestioni alchemiche, alle credenze e alle superstizioni; un mondo nel quale gli opposti si sfiorano, dove la magia può ancora essere una delle forme in cui si manifesta il procedere della ragione, o la geniale scintilla di una intuizione.

Il Rinascimento cui la scrittrice dà vita in questo magnifico romanzo, vivificato da una prosa di rara bellezza e non comune profondità, ha in sé tutta la concretezza documentale della storia, che si rivela tanto nella ferocia delle guerre e dei conflitti religiosi che senza sosta lo dilaniano quanto nella magnificenza, nella nobiltà e nella eternità del pensiero umanistico, la cui maturazione raggiunge le più alte vette. Testimone e simbolo di questa realtà fluida, resa instabile ma anche vivificata da cambiamenti continui, è un personaggio inventato, il protagonista del romanzo, una figura di assoluto fascino, che l’autrice svela poco alla volta, quasi fosse una sorta di mistero, un enigma da risolvere: Zenone, uomo dal vasto sapere, filosofo, scienziato e alchimista, sorta di modello di un principio che sta a fondamento della ricerca degli alchimisti e che si riassume nel motto latino Ignotus par ignotius, obscurus par obscurius, che significa Andar verso l’oscuro e l’ignoto attraverso ciò che è ancor più oscuro e ignoto. E cosa può esserci di più oscuro, di più difficilmente interpretabile, di più sfuggente, di un essere umano?

All’interno di una splendida, impeccabile ricostruzione d’ambiente – “L’anno 1549 iniziò con piogge che si portarono via le semine degli ortolani; una piena del Reno inondò le cantine dove mele e barili mezzo pieni galleggiavano sull’acqua grigia. A maggio, le fragole ancora verdi si fradiciarono nei boschi e le ciliegie nei frutteti. Martino fece distribuire minestre ai poveri sotto il portico di San Gereone; la carità cristiana e la paura di sommosse ispiravano al borghese quelle elemosine. Ma quei mali non erano che araldi di una calamità più terribile. La peste, giunta dall’Oriente, penetrò in Germania per la Boemia. Viaggiava senza fretta, al suono delle campane, come un’imperatrice” – Marguerite Yourcenar squaderna temi di importanza capitale, che valicano i fragili confini del tempo per presentarsi al lettore in tutta la loro urgenza e modernità: il rapporto degli uomini con gli imperscrutabili (e spesso incomprensibili) decreti di Dio; i limiti della ragione e il suo bisogno di essere libera, di indagare, di superare limiti imposti da altri; il potere, le sue seduzioni e i suoi pericoli; il posto dell’uomo (ammesso che davvero ne esista uno) in una realtà sempre mutevole, incapace di offrire punti di riferimento e che incessantemente chiede di essere analizzata, compresa, decifrata.

Così, in pagine di assoluto splendore, ecco comparire più romanzi in un unico romanzo; ecco intrecciarsi l’avventura e il dinamico (e spesso tormentato) procedere del pensiero; ecco svilupparsi, e radicarsi con sempre maggior forza, l’audacia calcolata e cinica di mercanti e banchieri, e la verità resistere a fatica dinanzi alla straripante forza dell’interesse di parte, della moltitudine nei confronti del singolo. Straordinario per valore letterario, L’opera al nero è con ogni probabilità il miglior lavoro della Yourcenar; è un viaggio meraviglioso, indimenticabile, che coinvolge, appassiona, commuove, in alcuni momenti indigna e in altri entusiasma. È un piccolo, perfetto capolavoro.

Eccovi l’incipit; la traduzione, per Feltrinelli, è di Marcello Mongardo.

Enrico-Massimiliano Ligre procedeva a piccole tappe sulla via di Parigi. Dei contrasti che opponevano il Re all’Imperatore, ignorava tutto. Sapeva solamente che la pace conclusa da qualche mese si sfilacciava già come un abito indossato troppo a lungo.

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