Recensione di “Vicolo del Mortaio” di Nagib Mahfuz
A un passo dalla frenesia della città, la vita, nella quiete di una strada, germoglia nella generale indifferenza, e giorno dopo giorno tutto quel che accade in un pugno di case, il mosaico di amicizie, rivalità, gelosie, amori e segreti che come tela di ragno sta a fondamento di quel particolare, minuscolo e ignoto angolo di mondo, si fa inconsapevolmente archetipo dell’umano, dei suoi splendori e delle sue cadute, dei suoi patimenti e delle sue speranze, dei suoi sogni a occhi aperti e dei suoi dolorosi, drammatici risvegli.
È in un narrare lieve, che somiglia a una carezza, che queste esistenze trovano, assieme alla propria voce, un senso ai loro giorni, al lento trascorrere del tempo, ai grandi eventi, talmente distanti da passare quasi inosservati e malgrado ciò concreti in tutta la loro tragicità; è nella prosa gentile, morbida e precisa di Nagib Mahfuz, premio Nobel per la Letteratura nel 1988 e autore dello splendido e delicato Vicolo del Mortaio (pubblicato nel 1947), che questa dimenticata via della capitale egiziana trova il modo di guardare in se stessa e oltre, ha l’occasione di provare a comprendersi, di osservarsi allo specchio. Il presente raccontato da Mahfuz non poggia su un’indistinta atemporalità (gli anni in cui si svolgono le storie che compongono il romanzo sono quelli del secondo conflitto mondiale), ma il suo esserci resta discreto, quasi impalpabile; l’oggi riposa dietro le quinte di un palcoscenico colmo della straripante ricchezza di emozioni e sentimenti dei singoli, perché quel Vicolo del Mortaio che è stato “una delle meraviglie dei secoli passati e un tempo ha brillato come un astro fulgente nella storia del Cairo” e che ora sonnecchia sulle proprie rovine, contempla impotente e sfinito la propria decadenza, resta, al di là di qualsiasi contingenza e oltre il trascorrere degli anni e dei secoli, luogo in cui il vivere resiste testardo.
E con esso, a resistere, a sfidare la desolazione e l’oblio, è ogni cosa che al vivere si accompagna e che lo definisce, lo determina, lo costituisce: l’amore, innanzitutto, quello appassionato del giovane barbiere Abbas al-Helwu per la bellissima Hamida, a sua volta consumata dalla febbre dell’ambizione, che la rende impaziente e le accende fantasia e immaginazione, trasformando il vicolo e tutto ciò che è in esso nella più intollerabile delle prigioni; e poi la solida amicizia, talmente forte, disinteressata e pura da essere lealtà, da travalicare il semplice affetto, quella che lega l’ingenuo venditore di basbusa (un dolce tipico) Kamil allo stesso Abbas al-Helwu; e ancora la tormentosa passione omosessuale che scuote lo spirito e la carne di Kirsha, proprietario del caffè più frequentato del vicolo, e che lo spinge ad affrontare tanto la rabbia della moglie quanto la riprovazione dei conoscenti; la saggia follia dello Shaykh Darwish, un tempo insegnante di inglese, talmente provato da drammi personali da aver rinunciato a qualsiasi tipo di lotta, a qualsiasi genere di resistenza; l’assoluta generosità del dono di sé a Dio di Sayyid Ridwan, che nella fede ha trovato il perché delle proprie sofferenze e con esso, almeno in apparenza, finalmente, la pace; la truffaldina meschinità del dottor Bushi, dentista che ha imparato il mestiere “con la pratica, senza bisogno di frequentare corsi di medicina o d’altro”, il quale procura le dentiere ai propri clienti rubandole ai morti assieme all’oscuro misantropo Zaita, abilissimo nel procurare infermità a coloro che desideravano fare i mendicanti.
Di tutti questi personaggi, e di altri ancora, Mahfuz racconta le vicissitudini; il suo sguardo attento li segue nei pensieri e nelle azioni e così facendo li svela, stando tuttavia attento a non giudicarli, a non emettere condanne, a non distribuire patenti di indegnità o certificati di virtù, ma sfiorando ognuno con umana pietà, esplorando le debolezze senza indulgere a morbosità e cercando, nella ricchezza della parola, nell’universalità della letteratura, che tutti ci contiene, l’espressione per quel che troppo spesso la vergogna, le convenzioni, le regole sociali e le altrui scale di valori preferiscono seppellire sotto montagne di silenzio e ipocrisia. La scrittura di Mahfuz sceglie la verità, si veste di coraggio; senza mai urlare, parla e, sommesso, il suo canto non smette di aprire cuori, di abitare anime.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Feltrinelli, è di Paolo Branca. Buona lettura.
Il tramonto si annunciava e il Vicolo del Mortaio andava coprendosi di un velo bruno, reso ancor più cupo dalle ombre dei muri che lo cingevano da tre lati.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.
Splendida recensione e splendido libro. Lo lessi tanti anni fa e un poco la memoria è annebbiata ma mi colpì la potenza del narratore, per certi aspetti simile a quella del Verga.
Un libro davvero meraviglioso. Felice che la recensione ti sia piaciuta.
Se vuoi io parlo de “il Ladro e i cani” sempre di Mahfuz sul mio blog, comunque bella recensione, complimenti 👌🏽
Ti ringrazio molto. Leggerò con piacere la tua recensione. Un caro saluto