Recensione di “Furore” di John Steinbeck
“Non si dissero altro quella sera. Mangiarono, parlarono, risero, poi venne il momento di far dormire Cristiano. Emma si chiuse in camera, sistemò il piccolo nella culla e rimase con lui finché non si addormentò. Il ragazzo la aspettò in bagno, appoggiato al lavandino, il libro aperto davanti a sé che guardava senza vedere. Le pagine coperte da una fitta, indecifrabile foresta d’inchiostro; le parole che lui così tanto amava e in quel momento non gli erano di nessun aiuto.
Stava leggendo di una famiglia, di un gruppo di povera gente che insieme a centinaia di migliaia di persone simili a loro si trascinava in un viaggio folle, disperato, alla ricerca di un lavoro, di una speranza, di un futuro. Quella famiglia, numerosa, racchiudeva in sé più generazioni: i nonni, rotti a ogni fatica, i loro figli, che dai genitori sembravano aver ereditato soltanto la forza di lottare per non soccombere, e i figli di questi ultimi, i più giovani, anch’essi destinati a combattere contro il mondo, e contro la miseria e le umiliazioni e le prevaricazioni che da ogni parte sembravano assalirli. E tra loro una ragazza incinta, che avrebbe partorito di lì a pochi mesi; il ventre già arrotondato, i seni colmi, il viso felice malgrado tutto, gli occhi grandi, sinceri, in cui ancora abitava la speranza, che ancora sapevano piangere di gioia. Il libro aveva conquistato il ragazzo fin dalle prime righe, l’aveva portato con sé lungo le strade desolate di quell’America lontana nel tempo eppure familiare, attraverso quel Paese immenso, ferito, saccheggiato, spogliato eppure ancora in grado di mettere al mondo dei figli, di accogliere l’uomo. Anche se derelitto, piegato, sconfitto”.
Ho scelto di utilizzare le parole contenute nel mio primo romanzo Quella solitudine immensa d’amarti solo io (2012, se vi interessa, la recensione la potete leggere qui) per introdurre Furore, romanzo-capolavoro di John Steinbeck, caposaldo della letteratura sociale. I temi che il grande scrittore americano esplora in queste densissime pagine, dove senza sosta la rabbia trascolora nella compassione, la pietà scivola nello sdegno, e sempre risplende la dignità dei più poveri, sono quelli eterni e irrinunciabili della vita: la violenza intollerabile (eppure costantemente replicata) dell’uomo sull’uomo, la tumorale escrescenza di consessi che si definiscono civili ma che sempre vengono edificati sulla sistematica prevaricazione del più forte sul più debole.
Steinbeck narra con accenti indimenticabili l’odissea tragica di una famiglia (i Joad), costretta dalla Grande Depressione ad abbandonare la propria fattoria in Oklahoma e ad attraversare gli Stati Uniti per cercare una possibilità di sopravvivenza in California. Assieme e intorno a loro si muove un esercito di disperati, una umanità ridotta dalla fame e dal bisogno all’ombra di sé e tuttavia non doma, non completamente sconfitta. “Nelle baracche i mezzadri vagliavano la loro roba e quella dei genitori, e quella tramandata dagli avi; sceglievano le cose indispensabili al lungo viaggio imminente. Gli uomini non manifestavano debolezze sentimentali perché troppo esulcerati dalla rovina del loro passato, ma le donne presentivano l’accento nostalgico dei richiami del passato nel prossimo avvenire. Gli uomini frugavano nelle stalle e nei ripostigli degli attrezzi. Quest’aratro, quell’erpice, ricordi la senape che avevamo piantata durante la guerra? Doveva arricchirci, dicevano Gli attrezzi piccoli, fanne dei fasci, d’una mezza dozzina ciascuno, cavane quel che puoi, qualche dollaro, quel che danno. Finimenti, carrettini, seminatrici, zappette di tutte le dimensioni, tutto nel carro, portale al paese, vendi tutto per quel che ti danno, sbologna via tutto, carro e pariglia compresi. Tanto non servono più. Come? Mezzo dollaro per l’aratro? E la seminatrice costava trentotto, me n’offrite due? Approfittate, perché sapete che non me la riporto via. Bah, prendetela, con le mie maledizioni. Ma sì!, prendetevi la pompa, e i finimenti, collare, tirelle, frontale, quel gioiello d’un frontale a roselline rosse che avevo comprato pel baio, ricordi come steppava al trotto? Cianfrusaglie ammucchiate sull’aia”.
Il faticoso, estenuante cammino dei derelitti, nella evocativa, splendida scrittura di Steinbeck ha il ritmo di un inesorabile abbandono. Il passato, eredità inutile di generazioni cui la spaventosa, gravissima crisi economica, ferita sanguinante di un mondo che sta cambiando, che muta volto e pelle e che nel farlo sembra dimenticare qualcosa di essenziale, un legame, una capacità di ascolto, perde improvvisamente di valore di fronte a un presente e ancora di più a un futuro prossimo che dell’uomo, di ciò che egli è, della sua complessità, sembra volere soltanto la fatica, e con essa la supina obbedienza a regole che non ha più nessun bisogno di comprendere. Ed ecco che di fronte a questo intollerabile sfregio la prosa di Steinbeck, etica e sociale, allarga ancora di più il proprio orizzonte e si fa politica; denuncia e grida, segna a dito ingiustizie e prevaricazioni e si sforza di combatterle, di mostrare che l’assenza di alternative, il prendere o lasciare, non è che uno spregevole trucco, che esiste un limite che non è lecito ad alcuno oltrepassare, e che difendere quel confine è ciò che segna la differenza tra chi può ancora dirsi uomo e chi ha perduto la possibilità di farlo. E attraverso i Joad e le loro peripezie egli sventola la sua bandiera, una bandiera che alla resa oppone l’eroismo oscuro ma incancellabile della tenacia.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Bompiani, è di Carlo Coardi. Buona lettura.
Nella regione rossa e in parte della regione grigia dell’Oklahoma le ultime piogge erano state benigne, e non avevano lasciato profonde incisioni sulla faccia della terra, già tutta solcata di cicatrici.
Libro stupendo, come tutti quelli di Steinbeck che ho letto d’altronde (non finirò mai di ringraziare mio padre per avermi “presentato” questo autore). Un testo che, purtroppo, è invecchiato benissimo perché ancora oggi ci tocca cercare di “difendere quel confine è ciò che segna la differenza tra chi può ancora dirsi uomo e chi ha perduto la possibilità di farlo”. Grazie per questa bella recensione.
Sottoscrivo ogni parola. E sono io a ringraziarti.
Recensione splendida per un libro splendido, che ,grazie a te, rileggeró con passione!
Grazie a te e buona lettura!
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.