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Un arbitro di eleganza e arguzia

Recensione di “Satyricon” di Petronio

Petronio, Satyricon, Garzanti

Curiosamente, di uno dei massimi capolavori della letteratura latina, il Satyricon, è quasi più quel che si ignora di quel che si conosce. Frammentarie, infatti, sono le informazioni relative all’autore, tal Petronio Arbitro (personaggio legato alla variopinta corte neroniana del quale racconta con discreta abbondanza di dettagli Tacito nei suoi Annali, senza peraltro indicarlo esplicitamente come autore dell’opera in questione), e altrettanto lacunoso e incerto è il testo che ci è pervenuto.


Di queste sfavorevolissime condizioni, tuttavia, il Satyricon non ha sofferto; ricchissimo dal punto di vista dei registri linguistici, aperto a una sorprendente molteplicità di letture e di chiavi interpretative, vivace fino all’esuberanza più sfrenata nella narrazione, arguto e pungente nei dialoghi, finissimo nel disegno dei caratteri e nello stesso tempo privo di scrupoli e di remore nella descrizione delle vicende più sordide (anzi, allegramente compiaciuto della propria consapevole “degradazione”), il romanzo di Petronio – perché di questo si tratta, di un romanzo vero e proprio, per struttura, temi e modalità espressive – ha saputo conquistarsi, nei secoli, l’attenzione ammirata degli studiosi e suscitare l’entusiastico interesse dei lettori.

Nel raccontare le avventure grottesche e folli vissute dai due giovani e sfaccendati amici Encolpio e Gitone, l’autore sembra divertirsi a sparigliare le carte, a confondere, spiazzare, a non dare punti di riferimento; non solo evita accuratamente di esprimere un’opinione, un punto di vista ben definito, ma utilizza la sua straripante inventiva per cambiare continuamente volto alla narrazione stessa; così, se l’inizio della vicenda, che vede il colto Encolpio discutere animatamente con il retore Agamennone e criticare la vuota ampollosità cui si è ridotta, a suoi tempi, l’eloquenza, si potrebbe legittimamente considerare come una denuncia della generale decadenza culturale sofferta da Roma sotto il governo di Nerone, il suo immediato proseguimento, con Encolpio che vaga per strade che non conosce, viene avvicinato da una vecchia e condotto con l’inganno in un postribolo dove lo attende una sorpresa ben poco gradita, ribalta la prospettiva e non presenta altro che un’ordinaria scena di vita vissuta (distorta, certo, dal massiccio ricorso allo sberleffo, alla beffa, alla comicità insistita e greve, ma nella sostanza del tutto plausibile) dalla cui descrizione non emerge alcun tipo di riflessione di carattere etico o sociale. Identico discorso vale per l’episodio centrale del romanzo, la cena organizzata dal ricco e volgare Trimalchione, che giunge come una tregua, o un nuovo inizio, dopo che i due giovani sono scampati per miracolo a un estenuante rito orgiastico organizzato per placare la collera di Priapo (da loro provocato e offeso). Qui la raffinatezza espressiva di Petronio tocca vertici di perfezione e si fa, se possibile, ancora più sfuggente, quasi che, di pari passo con il crescere della fascinazione della prosa, anche la sua calcolata artificiosità si rafforzi. E allora Trimalchione, che ama a tal punto stupire coloro che hanno il privilegio di sedere alla sua tavola e gustare i cibi raffinati eabbondantissimi che vengono serviti da mostrarsi impegnato in una partita a dama giocata con monete d’oro e d’argento al posto delle pedine; che non si fa scrupolo di mandare a morte uno schiavo colpevole solo di essersi lasciato sfuggire di mano un piatto (d’argento, ma pur sempre un semplice piatto), e che con identica naturalezza discetta dei disturbi intestinali che lo tormentano e della propria vastissima erudizione (si vanta di possedere due biblioteche, una greca e una latina), è, ancora una volta, insieme simbolo di una generale decadenza vista come irreversibile e ritratto goliardico, scanzonato, di un tipo umano tra i tanti, niente più che un divertito esercizio di stile lontanissimo da qualsiasi giudizio morale.

Capace come nessun’altra opera di schiudersi, o per dir meglio di adattarsi, a ogni sensibilità, di vibrare all’unisono con l’anima di ciascun lettore, Satyricon è una creazione letteraria originalissima, un viaggio meraviglioso e indimenticabile in un passato ben definito che tuttavia ha i contorni immortali dell’eternità. È uno scherzo geniale, una virulenta satira di costume, un’avventura spensierata, un racconto orgogliosamente volgare e sensuale. È, soprattutto, la dimostrazione che non esistono confini che la scrittura non possa valicare.

Eccovi l’inizio. Buona lettura.

«O che non vi sembra che i nostri oratori abbiano in corpo le Furie stesse? Sentiteli lì che blaterano: “Queste ferite le ho ricevute per la comune libertà! Quest’occhio l’ho dato per voi! Deh! Concedetemi una guida che mi conduca ai miei pargoletti, ché mi hanno spezzato le ginocchia e non mi reggo in piedi!”».

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