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Vite spezzate su un’isola selvaggia

Recensione di “L’isola dei cacciatori di uccelli” di Peter May

Peter May, L’isola dei cacciatori di uccelli, Einaudi

Isola di Lewis, al largo delle coste scozzesi. Roccia scura, inospitale, spazzata dai gelidi venti atlantici e sferzata dal respiro rabbioso e infaticabile dell’oceano. Pochi villaggi, nei quali il tempo sembra aver smesso di scorrere. La vita degli abitanti è allo stesso tempo durissima e monotona; è sopravvivenza, scandita dalla violenza primordiale di tempeste e mareggiate e dalla soffocante intransigenza fondamentalista delle congregazioni religiose protestanti, dalle infuocate, immaginifiche prediche sull’ira di Dio rovesciate dai pulpiti e dalla severissima vigilanza della domenica, quando ogni strada è deserta, ogni locale chiuso e perfino le altalene nei parchi gioco sono serrate con i lucchetti affinché nulla e nessuno, neppure l’innocenza dei bimbi, possa profanare la santità del giorno del Signore.

È qui che suo malgrado è costretto a tornare l’ispettore Fin McLeod della polizia di Glasgow; qui, al villaggio di Crobost, dove è nato, cresciuto e dal quale, non appena ne ha avuto la possibilità, è fuggito. Un uomo è stato brutalmente ucciso, un uomo che McLeod conosce bene, qualcuno con cui è andato a scuola, insieme al quale è stato ragazzo e poi diventato adulto; un uomo che non ha mai amato, ma che adesso è solo un cadavere, un cadavere impiccato e sventrato trovato in una rimessa per barche. Un omicidio orribile, brutale, simile, troppo simile a un altro delitto avvenuto a Glasgow tempo prima e su cui proprio McLeod aveva indagato. Per questa ragione, per scoprire se i due fatti siano legati e in che modo, e soprattutto se l’assassino sia lo stesso, che l’ispettore viene inviato sull’isola. E sull’isola, ad attenderlo, ci sono tutti i fantasmi che fuggendo l’uomo ha creduto, sperato di potersi lasciare alle spalle. Una volta per tutte, per sempre. Questo l’antefatto, e seppur parzialmente anche la trama del bellissimo L’isola dei cacciatori di uccelli del giornalista e scrittore Peter May, primo capitolo di una trilogia; un dramma potente, di grande suggestione, che nelle cadenze di un mystery d’atmosfera affronta temi difficili, scomodi e disturbanti quali l’eredità del passato (il più delle volte quasi impossibile da sopportare) con la quale ogni uomo si trova a fare i conti, il rimorso (sorta di forma tumorale del ricordo, la cui incancellabilità è direttamente proporzionale alla sofferenza procurata), il dolore, la vendetta, l’incapacità di affrontare la vita e l’impossibilità di sfuggirle.

La prosa di May, magistrale e intensissima, regala emozioni uniche al lettore. Restituisce, attraverso pagine indimenticabili, l’atmosfera particolare, insieme terrificante e splendida, di quell’isola indomita, misteriosa e incomprensibile, che l’uomo abita per concessione del cielo e del mare, senza aver mai realmente conquistato, poi si concentra, con acuta sensibilità e partecipazione sincera, sulle travagliate esistenze dei singoli (a partire da Mcleod, che ha appena perduto un figlio e sta per divorziare dalla moglie, fino ad arrivare ai suoi amici d’infanzia, nessuno dei quali ha abbandonato l’isola: il fraterno compagno di giochi Artair, invecchiato, disilluso e sconfitto; Marsaili, l’amore della sua vita, abbandonata per stupidità, vanità, perché gli anni della giovinezza, nei quali crediamo che ogni traguardo sia raggiungibile, sono in realtà quelli in cui bruciamo noi stessi e il nostro domani moltiplicando gli errori e accumulando rimpianti; Murdo, il fratello minore della vittima, il bullo della scuola rimasto negli anni uguale a se stesso ma ancor più incattivito, inacidito; Donald, il più intelligente e brillante della compagnia, vittima del proprio splendore e dell’irrefrenabile desiderio di ribellarsi all’autorità paterna; Calum, la cui vita si è spezzata prima ancora che riuscisse ad assaporarla per una di quelle tragedie senza senso che il caso semina per via, come trappole per topi, e che la cattiveria del prossimo, il più delle volte inconsapevolmente, fa scattare); intanto, poco alla volta, il mistero legato al brutale assassinio si chiarisce. E la realtà che emerge è perfino peggiore della violenza omicida.

L’isola dei cacciatori di uccelli non è un semplice giallo. Il delitto e la sua soluzione sono un pretesto narrativo (peraltro ottimamente svolto) per raccontare l’odissea di uomini perduti, il destino oscuro di un microcosmo prigioniero di se stesso, che perpetua la propria esistenza in vita attraverso l’obbedienza silenziosa e supina a rituali antichissimi e sanguinari, come quello del massacro delle sule (raccontato con accenti di lacerante splendore), uccelli che a migliaia, ogni anno, nidificano su uno scoglio poco lontano dall’isola e che un manipolo di cacciatori stermina sistematicamente, forse in ricordo di un tempo nel quale gli uomini erano costretti a farlo per fame, forse perché, oggi, è questo, e soltanto questo, a dare un’ombra di senso ai loro giorni.

Leggete questo meraviglioso romanzo, ve ne innamorerete.

5 commenti su “Vite spezzate su un’isola selvaggia”

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