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Quasi indifferente al sorriso e al corruccio del cielo

Recensione di “L’agente segreto” di Joseph Conrad

Joseph Conrad, L’agente segreto, Mondadori

“Credo che le origini del romanzo L’agente segreto […] si possano far risalire a un periodo di reazione emotiva e mentale. La verità è che d’impulso io detti inizio a questo libro e lo scrissi senza alcuna interruzione […]. Ovviamente io non avevo alcun bisogno di scrivere questo romanzo […]. Nulla mi costringeva a trattare un simile soggetto […]. Ma l’idea di elaborare soltanto delle brutture, per giungere a scandalizzare o anche soltanto a sbalordire il lettore con un improvviso voltafaccia, non mi è mai venuta in mente […].

L’agente segreto fu iniziato subito dopo un periodo di due anni durante il quale ero stato intensamente assorbito dal compito di scrivere quel remoto romanzo che si intitola Nostromo con la sua atmosfera d’America Latina, e Lo specchio del mare, così profondamente personale […]. Non saprei dire se io provassi allora veramente il bisogno di un cambiamento […]. Poi, quando ancora non avevo, per così dire, ripreso la parola, e non pensavo affatto ad uscire dalla mia strada alla ricerca di qualcosa di brutto, il soggetto […] del racconto […] mi venne incontro attraverso poche parole che erano state pronunciate casualmente da un amico a proposito degli anarchici, anzi delle attività anarchiche: non rammento oggi da che cosa fosse originata la conversazione. Ricordo, tuttavia, le nostre osservazioni sulla futilità criminale di tutto l’insieme: dottrina, azione, mentalità; e sullo spregevole aspetto di quella posa pazzesca, la posa dell’impudente truffatore che sfrutta le miserie dolorose e la credulità appassionata di una umanità sempre così tragicamente avida di autodistruggersi. Questo era il motivo che rendeva imperdonabili ai miei occhi i pretesti filosofici della posa in questione. Passammo, poi, a esempi particolari e rievocammo la storia ormai vecchia, dell’attentato destinato a far saltare in aria l’Osservatorio di Greenwich: assurdità sanguinosa e talmente inutile nel suo genere che non avreste potuto scandagliarne le origini in base ad alcun processo razionale e neppure irrazionale. Infatti, anche l’irrazionalità perversa ha una sua logica; ma un simile attentato era assolutamente inconcepibile. Tanto che si finiva per trovarsi davanti a questo fatto: un uomo che saltava in aria e si riduceva a pezzi per qualcosa che neppure lontanissimamente, poteva somigliare a un’idea, anarchica o di qualunque altro genere. Per quel che riguarda l’Osservatorio, le sue mura esterne non presentarono la più piccola screpolatura. Su tutto questo richiamai l’attenzione del mio amico. Egli rimase un po’ in silenzio, poi con la sua maniera caratteristica, fortuita ed onnisciente, osservò: «Oh, ma quello era un mezzo idiota. Sua sorella dopo quel fatto si suicidò» […]. Non ci può esser dubbio sul fatto che quella informazione fu per me illuminante”.

Nell’illustrare la genesi de L’agente segreto, sorprendente spy story declinata in cupe atmosfere da dramma familiare, Joseph Conrad non si limita a porre l’accento su quello che è stato l’evento scatenante che lo ha portato a scrivere il libro, ma evidenzia il senso profondo che egli ha inteso dare a quest’opera. Se infatti il contenuto del romanzo sorprende il lettore di oggi per la sua attualità (vi si parla infatti esplicitamente di terrorismo, e a tratti con accenti di nichilismo talmente radicali da inquietare, e malgrado l’autore a più riprese si adoperi a stemperare la tensione attraverso abbondanti dosi di puntuta ironia, preoccupazioni e timori non vengono mai dissipati fino in fondo), quel che davvero cattura in questo lavoro è la scelta di Conrad di raccontare il disordine dinamitardo degli anarchici (e se si vuole, oggi, degli estremisti di qualsiasi colore, bandiera e credo religioso) dal punto di vista del reale significato delle loro azioni, cioè di quel che resta, una volta compiuto lo scempio, delle ragioni che lo hanno causato, e della fedeltà a esse di coloro che lo hanno pianificato ed eseguito. Ed è da questa prospettiva, senz’altro insolita, coraggiosa e disturbante, che L’agente segreto lascia sgomenti; perché quel che emerge dalla sotterranea ricerca di Conrad, dal suo scavo psicologico, dalla sua indagine sociale e politica, è l’assoluta insignificanza (razionale e ancor più morale) di qualsiasi disegno che si proponga la generale destabilizzazione dello statu quo.

È dunque a causa di questo “deserto ideale” che il “romanzo politico” Joseph Conrad, privato per così dire della materia prima necessaria allo scrivere, in sé non ha nulla di unitario ma è il risultato di una sorta di reazione chimica tra elementi diversi: la tragedia privata in primis (con il protagonista, il signor Verloc, borghese qualunque che da anni conduce una doppia vita lavorando come spia al servizio di una potenza straniera, alla quale fornisce informazioni sulle attività dei gruppi anarchici di cui è entrato a far parte in qualità di agente sotto copertura; con sua moglie Winnie, fedele e devota, e soprattutto ignara, per precisa scelta, dell’attività del marito; e con il fratello di lei, Stevie, buono, servizievole, affetto da un ritardo mentale che lo rende incapace di intendere e di volere e che Verloc, obbligato dai suoi “datori di lavoro” a scuotere l’opinione pubblica organizzando un attentato, sceglie di impiegare, causandone la morte), il richiamo alla cronaca (l’attentato descritto nel libro ricalca un fatto realmente accaduto, l’esplosione di un ordigno a Greenwich Park nel 1894) e, non ultima e non certo causale, l’ambientazione londinese, città, come scrive lo stesso Conrad, “enorme […] più popolosa di taluni continenti e, nella sua potenza, creata dall’uomo. Quasi indifferente al sorriso e al corruccio del cielo; una crudele divoratrice della luce del mondo. C’era in essa abbastanza spazio per situarvi qualsiasi storia, profondità sufficiente per qualsiasi passione, varietà sufficiente a qualsiasi messa in scena, e oscurità quanta ne occorre a seppellire cinque milioni di vite”.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Il signor Verloc, uscendo di mattina, lasciava il negozio sotto la tutela nominale di suo cognato. Poteva farlo, perché gli affari erano scarsi tutto il giorno, anzi in realtà non se ne concludeva alcuno prima di sera.

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