Recensione di “La donna della domenica” di Fruttero & Lucentini
L’ironia raffinata e pungente, i dialoghi brillanti, i personaggi disegnati con maestria, ritratti con acume, colti quasi in flagrante nelle loro debolezze, nelle loro meschinità, e dappertutto la sensazione obliqua, fastidiosa, insistente di un rivolgimento ormai prossimo, di un irreversibile cambiamento d’epoca destinato a distruggere tutto ciò che è stato fino a questo momento per lasciar posto a chissà cos’altro. E al centro di questo mosaico di cose e persone, di questo puzzle sociale, di questo labirinto psicologico dove di continuo si alternano luci e ombre, un misterioso omicidio cui ben presto segue un altro delitto.
È nelle cadenze di un romanzo giallo, trama e pretesto di una narrazione straordinariamente vivace e intelligente che guarda con divertita nostalgia e insieme con una sorta di aristocratico distacco a una società in pieno mutamento (ma non ancora del tutto consapevole di quel che sta vivendo), che Carlo Fruttero e Franco Lucentini danno vita a quella che è senza dubbio alcuno una delle loro opere più celebri e fortunate, La donna della domenica, piacevolissima avventura “a tinte fosche” che si consuma, in un girotondo di colpi di scena, equivoci grotteschi, drammi amorosi, gelosie artistiche, rivalità culturali e penosi ricatti, nel giro di soli cinque giorni in una Torino ritratta con cristallino affetto e una punta di gelida perfidia.
Nel rispetto (formale e, come è nello stile della coppia di scrittori, diabolicamente irriverente) delle regole del genere, fin dal principio della storia, anzi a partire dalla prima riga del libro, non si lascia spazio a dubbi in merito a ciò che accadrà: viene infatti annunciato che il primo personaggio con cui si fa conoscenza, l’equivoco architetto Garrone, un buono a nulla con pochissimi scrupoli che si arrangia vivendo di espedienti e cercando con ogni mezzo di costruirsi relazioni con i più diversi esponenti dell’alta e ricca borghesia cittadina, verrà assassinato quel giorno stesso (il martedì che dà inizio al romanzo); ed è infatti da questo delitto che tutto prende le mosse. Incaricato delle indagini è il commissario Santamaria, uomo di notevole ingegno e impeccabile nei modi, eppure suo malgrado esempio non certo edificante di quei “terroni”, di quella “gente del sud Italia”, di quei “meridionali”, come li chiamano coloro che si guardano bene dall’usare termini volgari ma il cui giudizio verso questi “stranieri”, diversi dai torinesi per mentalità e stile di vita quanto la luna è diversa dal sole che, al principio degli anni Settanta (periodo in cui il romanzo, pubblicato nel 1972, è ambientato), si riversavano al nord in cerca di lavoro e di opportunità, è tutt’altro che benevolo; toccherà a lui, per una sorta di buffo contrappasso, terrone “sui generis”, scoprire quale segreto nasconda la Torino bene; che cosa, in quell’ambiente così particolare, che sembra fatto solo di noia e di un sentenziare tanto arguto quanto vuoto sugli uomini tutti e sul “senso della vita”, abbia portato Garrone a perdere il suo bene più grande.
E accanto a Santamaria, che, mentre l’inchiesta prosegue senza fare in realtà nessun decisivo passo in avanti, fatica a mantenersi fedele a se stesso, ecco sfilare una galleria di personaggi tragicomici, che la penna di Fruttero e Lucentini veste in egual misura di comicità e cupezza; il ricco Massimo Campi, raffinato perdigiorno che trascina stancamente una relazione omosessuale con il giovane Lello, impiegato comunale desideroso d’attenzioni e riconoscimenti; l’affascinante Anna Carla Dosio, sposata a un facoltoso industriale che non ama, o non ama più, come vorrebbe; Bonetto, studioso, intellettuale, esperto di letteratura americana spossato da una guerra non dichiarata con un collega; il gallerista Vollero, i cui sforzi per blandire la sua clientela di incompetenti dal portafoglio gonfio e continuare così il proprio commercio si fanno ogni giorno più pesanti. Fra di essi, nel loro incespicare spesso così ridicolo, negli eroismi da quattro soldi, nelle invidie di pianerottolo, nel graffiare di pettegolezzi cui non importano né la verità né il suo opposto, si cela in agguato l’orrore della cronaca, nutrito dalla sordida oscurità catramosa della colpa, del vizio, dell’interesse personale da perseguire sempre e comunque: “Il commissario si alzò, andò stancamente fino alla soglia del terrazzetto. Per il suo collega Rappa, della Buoncostume, che si limitava a rastrellarli periodicamente, a tenerli dentro una notte e a rilasciarli senza più nemmeno fargli la predica, era facile lamentarsi di avere le mani legate, chiedere misure severe, leggi intransigenti. Ma per lui, che spesso se li doveva sorbire a quattr’occhi, gli uomini e le donne del sottobosco cittadino rappresentavano un ben diverso tipo di piaga. Soltanto per cauterizzare quella cancrena verbosa, quella logorrea di frasi fatte, di concetti fraintesi, di termini inappropriati, di idee malcotte e maldigerite, soltanto per farli finalmente tacere, il commissario si chiese se non valesse la pena di concedere a tutti […] tutto ciò che volevano, il libero coito in autobus, l’esibizionismo collettivo in piazza San Carlo, la sodomia al parco Michelotti, con le zebre e i tapiri dello zoo”.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Il martedì di giugno in cui fu assassinato, l’architetto Garrone guardò l’ora molte volte. Aveva cominciato aprendo gli occhi nell’oscurità fonda della sua camera, dove la finestra ben tappata non lasciava filtrare il minimo raggio.