Recensione di “La peste” di Albert Camus
Orano è una città che sembra volontariamente rinunciare alla bellezza, alla grazia. Un luogo “senza piccioni, senza alberi e senza giardini, dove non si trovano né battiti d’ali né fruscii di foglie”, dove “il mutamento delle stagioni non vi si legge che nel cielo […], la primavera si annuncia soltanto con la qualità dell’aria o coi cesti di fiori che i ragazzi portano dai sobborghi”.
In questa città, circondata dall’eterna meraviglia del mare e pigramente sazia del suo abbraccio, della sua presenza fedele, l’estate è un flagello di fuoco “che incendia le case troppo asciutte e copre i muri d’una cenere grigia” e l’inverno è la sola stagione capace di regalare giornate di tregua. Ed è qui, in questo strano microcosmo, in questo reticolo unico di strade che ospita uomini e donne capaci di vivere, lavorare e amare in un solo modo, con meccanica frenesia e con il preciso obiettivo di ottenere la massima soddisfazione personale, che in un giorno qualsiasi di un anno qualsiasi tutto precipita in un incubo. Simbolo, modello di ogni organizzato consesso sociale, esempio dunque dell’umanità tutta e della terra stessa, Orano si fa universale, crocevia di qualsiasi lingua, di quel che si conosce come di quel che si ignora, di ciò che è patrimonio del mondo e di ciò di cui il mondo è mancante, orfano, e soprattutto si trasforma nel centro perfetto da cui si irradiano tanto il bene quanto il male.
E a Orano Albert Camus ambienta il suo romanzo più celebre, La peste, potente allegoria della nostra deriva sempre possibile, metafora impossibile da dimenticare del nostro naufragio, eredità che ci portiamo addosso come un peccato originale, come una febbre di natura morale sempre pronta a manifestarsi. La peste, la corruzione ultima dei corpi (e naturalmente anche delle anime, degli spiriti, dei cuori), esplode a Orano nel giro di brevissimo tempo; al principio l’epidemia falcidia i topi, poi passa alle persone e si diffonde a velocità impressionante. Superato il primo momento di incredulità, le autorità sanitarie cittadine devono darsi da fare per fronteggiare un’emergenza che diventa più grave di ora in ora, ma la sola persona che davvero cerchi di opporsi al flagello è il dottor Bernard Rieux, un medico all’apparenza come tanti, un uomo qualunque, un anonimo eroe la cui moglie, molto malata, ha lasciato la città poco prima che gli eventi precipitassero sperando di trovare, in un altro luogo, una cura più efficace.
Ed è attraverso la voce pacata e ferma di Rieux-Camus che il lettore assiste alla tragedia di Orano, al suo soccombere al male, all’oscurità. Una volta accertata l’assoluta gravità della situazione, per ordini superiori la città viene chiusa, e coloro che fino a poco prima non erano altro che abitanti vivono, nella loro terribile condizione di forzati, una nuova esperienza di sé. A tu con una morte terribile, con una sofferenza per la quale non esiste rimedio, con l’assenza di una cura, il manipolo di uomini che l’autore sceglie per rappresentare l’intero genere umano, le passioni che lo attraversano e delle quali è schiavo, quelle che riesce a dominare e che lo rendono capace di resistere alle prove più dure e di essere scintilla di luce nella tenebra, compie un rivoluzionario viaggio interiore. E il primo a farlo è proprio Rieux, cui la peste offre l’occasione di interrogarsi senza sosta, di mettere sotto esame ciò che è stato, ciò che è e ancora più quel che diventerà se sopravvivrà alla malattia; assieme lui, lungo la strada tracciata dall’osceno moltiplicarsi dei cadaveri, ecco l’impiegato comunale Joseph Grand, alle prese con l’incipit di un’opera letteraria che non riesce a dire compiutamente quel che dovrebbe dire, che non sa essere definitivo, e ancora il religioso Paneloux, che forse troppo semplicisticamente vede nella peste il segno, se non di un vero e proprio castigo divino, quello di una più che giustificata collera del Signore, e infine l’enigmatico Tarrou, altro indiscusso protagonista del romanzo, attento osservatore delle cose del mondo che, attratto da Rieux, ne diviene prima braccio destro e poi amico al punto da confidargli il grande segreto della sua vita, l’incapacità di accettare come una cosa normale, come un semplice dato di fatto, come il complemento di una professione esercitata con serietà e senso del dovere il fatto che il padre, avvocato di talento, abbia in più di una occasione chiesto e ottenuto, durante un dibattimento, la condanna a morte dell’imputato. Alla barbarie senza appello della morte dispensata per mano d’uomo Tarrou preferisce la cecità della malattia, la sua naturale iniquità; straziante, certo, e tuttavia mai, a differenza di quel che si dà per mano d’uomo, scandalosamente deforme.
Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Bompiani, è di Beniamino Dal Fabbro. Buona lettura.
I singolari avvenimenti che danno materia a questa cronaca si sono verificati nel 194… a Orano; per opinione generale, non vi erano al loro posto, uscendo un po’ dall’ordinario; a prima vista, infatti, Orano è una città delle solite, null’altro che una prefettura francese della costa algerina.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.