Recensione di “La prigioniera – Alla ricerca del tempo perduto V” di Marcel Proust
Il tempo, o per dir con più esattezza la differente misura del suo scorrere, il suo liquido, lentissimo allungarsi nelle ore della giornata, l’attimo presente che di continuo si scompone cristallizzandosi, invece di dissolversi, nelle vertiginose architetture della memoria, nei labirinti colmi d’emozione, saturi di sofferenza, del ricordo rivisitato senza sosta, modellato come cera, distrutto, ricostruito e nuovamente abbattuto, il momento che ancora ha da venire immaginato con desiderio febbrile, vestito di speranza, agghindato dal sogno, deturpato dalla paura, dal sospetto, dalla malvagità;è il tempo, con i suoi moti di rotazione e rivoluzione, a dare sostanza narrativa a La prigioniera, quinto volume della monumentale opera proustiana Alla ricerca del tempo perduto (Mondadori editore, traduzione di Giovanni Raboni, per le recensioni ai precedenti volumi potete cliccare qui), cupo e claustrofobico dramma amoroso che vede, come unici protagonisti della storia, in una Parigi quasi immaginata (a descriverla sono solo episodi passati, passeggiate sempre interrotte, scorci di strade e d’umanità osservate, più spesso addirittura spiate, dalle finestre di una camera da letto), l’autore narratore e la fidanzata Albertine, “fanciulla in fiore” dai molti segreti, sospettata di avere inclinazioni omosessuali, che Marcel, tormentato dalla gelosia al punto da invitare la ragazza a vivere a casa sua così da poterla controllare da vicino, da esercitare su di lei un dominio quasi assoluto, e soprattutto da celarla al resto del mondo e alle sue innumerevoli tentazioni, vorrebbe e allo stesso tempo non vorrebbe sposare.
Nelle splendide, densissime pagine di questo romanzo, dove in realtà “nulla accade davvero”, dove l’assenza d’azione è totale e tuttavia non sembra esserci un attimo respiro, dove la tensione è ai massimi livelli e il cuore palpita, i pensieri impazziscono e le emozioni divampano, i sentimenti, e tutto ciò che essi svelano dell’uomo, sono oggetto di riflessioni costanti. Proust, svelando a se stesso prima ancora che al lettori i suoi moti più intimi, confessando di volere Albertine pur non amandola, di essere egli per primo, nella sua scomoda e violenta veste di carceriere, un prigioniero, un forzato, un uomo legato a una catena che si è fabbricato da sé, si interroga su cosa significhi davvero amare e su come sia possibile farlo trovando la tanto desiderata tranquillità. E nel cercare una via d’uscita dal vicolo cieco nel quale si è cacciato, volendo esclusivamente per sé ciò che in realtà non si può assolutamente avere, e cioè un’intera esistenza, con tutti i suoi desideri più privati, con le verità più scottanti, che si ha timore di rivelare persino a se stessi e che per nulla al mondo si consegnerebbero all’avidità, alla curiosità del prossimo, alla sua brama che quasi mai conosce compassione, egli dipinge, nella figura di Albertine, un contraltare di sé che con la sua persona finisce per avere molti più punti di contatto che differenze evidenti. Certo, la ragazza che ha accettato di vivere da lui, di farsi controllare, che, mentendo a più riprese, protesta il proprio affetto, il proprio amore per colui che la lega a sé allo stesso tempo con brutalità e con la meschina seduzione delle cose belle, dei desideri soddisfatti grazie alla disponibilità di denaro, che non perde occasione per ordire alle sue spalle inganni e fare di tutto affinché i piaceri che realmente intende soddisfare (e che per l’uomo sono causa delle più violente crisi di disperazione) siano una volta per tutte appagati, è senza alcun dubbio una figura negativa, una colpevole, se di colpa, in una simile situazione, ha senso parlare.
E tuttavia Proust si guarda bene dal giudicarla, rinuncia a far valere una superiorità morale; senza cessare di dar voce ai suoi dubbi, svelando, poco alla volta, le macchinazioni di Albertine, paragonandole (in special modo nel corso di una drammatica serata a casa Verdurin, dove Albertine avrebbe a ogni costo voluto andare, perché lì l’attendeva un agognato incontro, e dove invece si era recato, seppur di malavoglia, l’autore, dopo essere riuscito a impedire alla giovane di recarcisi) alle strategie del signor di Charlus (sempre a rischio di finire travolto dalla propria passione omosessuale), egli in qualche misura offre giustificazioni alla ragazza; nell’utilizzare, come unità di misura delle sue bugie, la propria insincerità (il suo parlar d’amore a una donna che avrebbe in realtà voluto allontanare ma dalla quale non osava separarsi perché conscio del fatto che la sua libertà, qualsiasi piega avesse preso, non sarebbe passata inosservata al suo cuore) Proust, se non arriva ad assolvere la sua compagna, condanna se stesso con essa, e guarda al fallimento della loro coppia, mai davvero nata, come a una delle infinite, possibili forme che può assumere l’incomprensibile mistero dell’amore, quel dono assoluto di ciò che si è destinato a soccombere nelle spire di serpente del nostro invincibile egoismo.
Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.
Fin dal mattino, la testa girata ancora verso il muro, e prima d’aver visto, sopra le grandi tende della finestra, di che sfumatura fosse la striscia di luce, sapevo già che tempo faceva.