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Tekel Upharsin

Recensione di “Labirinto di morte” di Philip K. Dick

Philip K. Dick, Labirinto di morte, Fanucci

“La teologia di questo romanzo non è l’equivalente di alcuna religione conosciuta. Essa nasce dallo sforzo […] di sviluppare un sistema di pensiero religioso, astratto e logico, basato sull’arbitrario postulato che Dio esista […]. La visuale di questo romanzo è altamente soggettiva; con ciò voglio dire che in ogni momento la realtà è vista non direttamente ma indirettamente, cioè per il tramite della mente di uno dei personaggi […]. «Tekel Upharsin», in aramaico, significa «Egli ha pesato, ora essi dividono».

L’aramaico era la lingua parlata da Cristo. Ci dovrebbe essere più gente come lui”. Nella premessa a Labirinto di morte (in Italia edito da Fanucci nella traduzione di Vittorio Curtoni), Philip K. Dick illustra ai lettori il tema cardine del suo romanzo: il rapporto, la relazione tra ciò che è vero e ciò che non lo è, tra la realtà e la finzione. In questo senso, l’esistenza di Dio, ipotizzata nel lavoro del grande scrittore americano, spalanca un universo di possibilità narrative potenzialmente infinito, un vero e proprio labirinto, al cui interno, tuttavia, è quasi impossibile orientarsi, poiché il farsi certezza del trascendente, e il conseguente mutare della preghiera, della supplica (e della fede che, in differenti gradi intensità, le accompagna) in semplice richiesta, in una burocratica domanda non dissimile da quelle che si inoltrano al capoufficio e che tanto l’uno quanto l’altro possono arbitrariamente accogliere o respingere, la reductio della divinità a mero fatto, finiscono solo per moltiplicare l’esistente e dunque per allargare ancora di più lo spazio del possibile, delle cose che possono accadere, delle probabilità che potrebbero verificarsi. Così, il raggiungimento di un obiettivo, o la realizzazione di un desiderio, che in un mondo nel quale l’esistenza di un Demiurgo fosse esclusivamente legata alla volontà di credere dei singoli e delle masse dipenderebbe dalla perseveranza, dagli sforzi, dai sacrifici delle persone coinvolte – senza dimenticare il caso e la fortuna – e solo in minima parte alla decisione di un Creatore nei confronti del quale non v’è sicurezza alcuna, in un mondo differente, dove il soprannaturale fosse null’altro che un aspetto del naturale, qualsiasi traguardo si potrebbe raggiungere altrettanto bene impegnandosi a fondo in un’azione concreta o concentrandosi nella preghiera. Ed è proprio in questo modo, con una preghiera accolta, che Ben Tallchief, uno dei personaggi (quattordici in tutto) di Labirinto di morte, riesce ad abbandonare il proprio odiato lavoro su un’astronave e a ritrovarsi sul pianeta Delmak-O assieme a un eterogeneo gruppo di scienziati e tecnici; obiettivo, dare il via alla colonizzazione.

Ma una volta superata questa nuova frontiera, Tallchief e i suoi compagni non tardano a rendersi conto di essere caduti in una sorta di trappola, di essere vittime di un diabolico complotto; le istruzioni che avrebbero dovuto guidarli nell’opera di colonizzazione vengono irrimediabilmente perdute, forse a causa di un guasto, forse per un deliberato disegno e il gruppo, sempre più attanagliato da reciproca sfiducia e da un inquietante senso di pericolo, si sfalda. Finché le cose precipitano definitivamente a causa di una serie di morti misteriose; uno a uno i membri della colonia vengono uccisi. Chi è l’assassino? Si tratta di una persona sola? E per quale ragione uccide? E come sceglie le proprie vittime? Cos’ha in mente? E soprattutto, cosa fare per sopravvivere e lasciare il pianeta? Per nessuna di queste domande, che l’autore affronta come altrettanti dilemmi filosofici, esiste una risposta, perché il mistero di Delmak-O in realtà è il mistero di coloro che sono arrivati fin lì, la proiezione dei loro segreti, delle loro più oscure paure e delle loro speranze più luminose. Poi, improvviso, ecco lo scioglimento di tutti gli enigmi, che interrompe tanto la catena di delitti quanto i tentativi messi in atto per arrestarla, costringendo i superstiti a fare i conti con la nuda verità dei fatti, impermeabile a qualsiasi ideologica sovrastruttura, a ogni artificio retorico, a qualsiasi sottigliezza logica. Delmak-O e le sue interpretazioni, tante quanti sono coloro che il pianeta ha accolto, svaniscono come sogni al contatto con la realtà, con l’immediatezza di un presente che non lascia scampo né vie di fuga.

Riflessione potente e tragica abbigliata da avventurosa odissea fantascientifica, Labirinto di morte è un romanzo di claustrofobica intensità; nel ribaltamento delle prospettive consuete (gli spazi aperti di un pianeta che si stringono addosso alle persone come i muri di una stanza, Dio abitante dell’universo al pari di miliardi di altre forme di vita, l’angoscioso naufragio del dogma antropocentrico su cui si regge il concetto stesso di colonizzazione) Dick ci consegna un piccolo, scintillante, gioiello letterario.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Il lavoro, come sempre, lo annoiava. Così si era recato, la settimana precedente, al trasmettitore della nave e ne aveva allacciato i condotti agli elettrodi permanenti che uscivano dalla sua ghiandola pineale. I condotti avevano trasferito la preghiera al trasmettitore, e da lì la preghiera era passata al più vicino centro d’ascolto; la preghiera, in quei giorni, aveva fatto il giro della galassia, per finire (almeno lo sperava) su uno dei mondi divini.

1 commento su “Tekel Upharsin”

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