Recensione di “Stiller” di Max Frisch
La citazione con cui si apre Stiller, uno dei migliori romanzi di Max Frisch, ne è anche la principale chiave di lettura. Si tratta di un brevissimo brano tratto da Aut-Aut, saggio scritto dal filosofo e teologo danese Sören Kierkegaard, che parla della scelta di se stesso da parte dell’uomo. Scrive Kierkegaard: “Ecco perché l’uomo fa tanta fatica a scegliere se stesso, perché in questa scelta l’assoluto isolamento è identico alla più profonda continuità, perché con essa si esclude assolutamente ogni possibilità di diventare qualcosa di diverso, anzi di trasformarsi in qualcosa di diverso”.
Stiller, all’anagrafe Anatol Lugwid Stiller, è uno scultore svizzero, e la sua identità perduta, scomparsa, o per dir più esattamente messa da parte (in piena coscienza), costituisce trama e senso ultimo di questa sorprendente opera, che l’autore in principio declina secondo i canoni classici del thriller e poi vira verso gli inquietanti chiaroscuri del dramma psicologico. Frisch narra in prima persona la disavventura di Stiller, fermato in Svizzera da uno zelante doganiere che nutre dubbi sulla correttezza del suo passaporto (secondo il quale l’uomo cha ha di fronte è un cittadino americano qualunque, il signor White), rinchiuso in cella dopo aver schiaffeggiato, in un impeto d’ira, quello stesso doganiere, e invitato dalle autorità elvetiche a chiarire quell’intricata vicenda mettendo per iscritto, in una sorta di diario-confessione, tutta la propria vita. La sua prosa, agilissima, suggestiva in più di un momento, coinvolgente e ricca di sfumature, si muove tra esistenze diverse senza mai dare al lettore precisi punti di riferimento.
Annullato qualsiasi confine tra verità e menzogna, lo scrittore svizzero alterna memoria personale e ricostruzioni storiche e d’ambiente mutando costantemente prospettiva. Non c’è nulla di certo né di sicuro nel racconto che prende forma pagina dopo pagina, perché il solo terreno di confronto condiviso dai protagonisti della narrazione è quello di una disputa, allo stesso tempo patetica e tragica, su un’identità, su una vita e su tutto ciò che porta con sé. Per i suoi carcerieri, il signor White è Stiller, artista, coniugato (con una donna bellissima di nome Julika), misteriosamente scomparso da sei anni, all’indomani di un intricatissimo “affaire” spionistico internazionale. Per il malcapitato americano, invece, la convinzione delle autorità svizzere non è che un colossale errore, che poco alla volta si trasforma in una sfibrante tortura. Stiller, costretto a diventare testimone del suo passato, a tradire se stesso confessando il vero (o meglio, quel che altri ritengono essere tale), lotta con tutte le sue forze per resistere, ma fin dall’inizio la sua difesa è debole. “Non sono Stiller!” urla ai suoi aguzzini, e così facendo, quasi senza accorgersene (una mancanza peraltro condivisa anche dai carcerieri), mette a nudo tutta la sua fragilità esistenziale; in fuga da se stesso, quest’uomo senza identità che disperato oscilla tra due vite differenti (anzi, opposte l’una all’altra), non trova la forza – quella che avrebbe se potesse parlare con sincerità, limpidamente – di dichiarare chi è, ma soltanto quella di rifugiarsi in un’ostinata negazione. “Non sono chi dite di essere”, fa dire l’autore al protagonista del suo bellissimo romanzo, “e questa”, aggiunge tra le righe, “è l’unica cosa che importa davvero, perché quel che sono in realtà è solo una maschera bianca sulla quale è possibile disegnare qualsiasi volto. E immediatamente dopo cancellarlo”.
Stiller è un meraviglioso romanzo, un purissimo gioiello letterario che guarda all’uomo, alle sue paure e alle sue contraddizioni con una sensibilità e un’intelligenza non comuni. È un ritratto psicologico che ha lo splendore e la perfezione di un’opera d’arte.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
«Non sono Stiller!». Giorno per giorno, da quando mi hanno portato in questa prigione che mi riservo di descrivere, lo ripeto, lo giuro e chiedo whisky, rifiutando in caso contrario qualsiasi ulteriore dichiarazione.