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Au bout de l’homme

Recensione di “Viaggio al termine della notte” di Louis-Ferdinand Céline

Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio

È un viaggio nel cuore dell’uomo, di ogni uomo, e nelle tragedie del suo tempo (la catastrofe immane della Grande Guerra, l’America post bellica, già sedotta e consumata dal cancro della massificazione produttiva e consumistica, i soprusi e gli orrori delle politiche coloniali e l’abiezione dei loro alfieri e fantocci, il degrado e la miseria morale dell’egoismo dei poveri, degli ultimi, che ciechi e sordi alla pietà guardano alla finzione del buon nome, al miraggio della rispettabilità sociale come al più prezioso dei tesori, sacrificando a questa chimera finanche la loro ultima scintilla di umanità) quello che Louis-Ferdinand Céline compie nel suo lavoro letterario più noto, quel Viaggio al termine della notte che lo impose all’attenzione del pubblico e della critica come lo scrittore più talentuoso e dirompente del Novecento.

Creato da Dio per dare scandalo (così ebbe a definirlo Bernanos), Céline è più l’ecce homo che lo scandalo lo indica, lo addita, lo rivela; la sua voce unica, stridula e calda a un tempo, mescola l’enfasi eccitata dello strillone che invoca l’attenzione della strada alla lucida verità profetica di Cassandra, la cui forza travolgente non è tuttavia sufficiente ad abbattere il muro di insensibilità, ignoranza, paura e menzogna del prossimo; e ancora ha le deliranti tinte d’incubo dell’insulto, del ribaltamento grottesco di tutte le prospettive, del rovesciamento violento del buon senso, che è impietoso smascheramento del vero, di quell’indicibile che è la sostanza ultima del vivere; e di nuovo la voce si muta in altro, cresce di un’ottava nell’infinita scala musicale dell’espressività, nella conflagrazione del dire senza riserve, del confessare, del rivelare e si fa disperazione cinica, diviene quel particolarissimo, estenuato odio che è la devastazione dell’assenza d’amore, si scoglie in un pianto dirotto che è resa all’imbarbarimento del mondo, alla sua fine che si compie ogni giorno.

Solitaria e irraggiungibile, la voce di Céline nel Voyage è quella del suo alter ego Bardamu, la cui odissea è la vita stessa del suo autore, spesa in una lotta impari, in una donchisciottesca tenzone che nulla ha della morbidezza del sogno e della purezza della poesia, con l’artificio retorico, forma perfetta della menzogna, dell’inganno perpetrato dall’uomo verso l’uomo.

La retorica della distorsione perversa di tutto ciò che è immediato, che sarà dell’Orwell di 1984La pace è guerra, La libertà è schiavitù, L’ignoranza è forza – e che vuole che il significato condiviso di ciò che viene detto e pensato trovi comprensione e applicazione nel suo opposto, è ciò di cui Céline-Bardamu fa esperienza, ciò da cui viene braccato, che sembra avere la capacità di replicarsi ovunque, nei luoghi e nelle genti, e che sempre ritorna a sconvolgere, distruggere, devastare, inaridendo l’umano nell’antiumano. Ed è il caso della retorica odiosa e assassina della guerra, dell’eroismo della morte, dell’amor di patria contrabbandato come sommo sentimento, cui Bardamu-Céline contrappone senza vergogna il sentire concreto, umido di terra, dell’amor di sé, della protezione di se stesso, la “vigliaccheria” della vita da vivere e degli affetti conosciuti, che si ancorano al cuore all’anima ben più dell’anonima genericità di una nazione che ti riconosce figlio e a te si appella solo nel bisogno, nell’urgenza, nel dramma.

Così come è il caso dell’orgoglio stantio su cui si reggono le violenze delle conquiste coloniali, che l’autore liquida con una bestemmia e un commosso omaggio al sacrificio personale, alla carità di un singolo capace di annullare se stesso per donare a qualcun altro la possibilità di un futuro – “Evidentemente Alcide faceva evoluzioni nel sublime come fosse casa sua, per così dire con familiarità, dava del tu agli angeli, ’sto ragazzo, e aveva l’aria di niente. Aveva offerto quasi senza un dubbio a una ragazzina vagamente apparentata anni di tortura, l’annichilimento della sua povera vita in quella torrida monotonia; senza condizioni, senza mercanteggiare, senz’altro interesse che quello del suo buon cuore. Offriva a quella ragazzina lontana tanta tenerezza da rifare il mondo intero e questo non si vedeva. S’addormentò di colpo, alla luce della candela. Finì che mi alzai per guardare bene i suoi tratti alla luce. Dormiva come tutti. Aveva l’aria proprio normale. Però non sarebbe poi tanto male se ci fosse qualcosa per distinguere i buoni dai cattivi”.

Tra le ombre, che sono tutto ciò che resta dell’umanità che Céline incontra, egli non si stanca di puntare la sua lanterna, disprezzando del disprezzo del cinico Diogene chi altro non merita se non fiele e rabbia, eppure è d’amore, anche se di un amore impossibile, che egli non rinuncia a parlare.

Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Corbaccio, è di Ernesto Ferrero. Buona lettura di un romanzo immortale.

È cominciata così. Io, avevo mai detto niente. Niente. È Arthur Ganate che mi ha fatto parlare. Arthur, uno studente, un fagiolo anche lui, un compagno.

3 commenti su “Au bout de l’homme”

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