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L’uomo e l’ambiente

Recensione di “Io sono Charlotte Simmons” di Tom Wolfe

Tom Wolfe, Io sono Charlotte Simmons, Mondadori

Con ogni probabilità, la più argomentata confutazione della tesi che sostiene l’esistenza di un rapporto diretto di influenza tra l’uomo e il suo ambiente (con il secondo che agisce sul primo) la si deve allo scrittore americano Tom Wolfe, che ha scelto, per esporla e dimostrarne, se non l’esattezza scientifica, di certo l’incontestabile verità immediata, il mezzo espressivo che meglio domina e più lo rappresenta: il romanzo.


Io sono Charlotte Simmons è nello stesso tempo una storia di formazione, un perfido esercizio di stile, un divertissement letterario che ha come proprio bersaglio una spietata critica sociale e soprattutto un ritratto al vetriolo del sistema dell’istruzione superiore americana. È infatti nel cuore di quell’eccellenza tanto sbandierata quanto universalmente riconosciuta, nel centro esatto di quel microcosmo di abbacinante splendore dove in perfetto equilibrio convivono (o almeno così sembra a prima vista) tradizione e modernità, dove il diritto alla studio è una realtà e dove le sole chiavi d’accesso ai più prestigiosi atenei sono merito e capacità, che egli ambienta il suo racconto. È qui, in questa sorta di “paradiso realizzato dalla mano dell’uomo”, più precisamente nello splendore della Dupont University, che giunge, proveniente dal North Carolina, Charlotte Simmons, ragazza raffinata, beneducata, di notevole cultura, nonché, ed è questa la cosa che conta di più, studentessa così brillante da essersi meritata una borsa di studio.

Ma l’impatto con ciò che ha sempre sognato, con quel che anni di studio e libri letti sembravano prometterle a ogni pagina, non è come se lo era aspettato. L’università, magnifica nei suoi spazi, curata in tutti i dettagli, coerente con il messaggio che si incarica trasmettere, un messaggio che parla di cultura, di valori, di formazione, di responsabilità, si rivela ben presto il contrario di ciò che dovrebbe essere; nelle sue stanze, nelle aule di studio, negli spazi in cui si svolgono le lezioni, così come in quelli dove a dettare legge sono le confraternite con i loro riti di iniziazione e l’ebbrezza niente affatto dionisiaca delle loro feste, consumano i loro giorni (e i loro anni) giovani cui sembra non importare altro che la sfrenatezza di un divertimento capace solo di stordire i sensi, di cancellare i pensieri, di bandire ogni preoccupazione. I professori migliori, i laboratori più all’avanguardia, le biblioteche ricchissime, dove è possibile reperire senza difficoltà praticamente qualsiasi testo, sono soltanto quel che deve esserci in un’università affinché possa continuare a chiamarsi università e attrarre ragazze a ragazzi all’interno delle sue mura, non il sole attorno a cui ogni cosa ruota. Sono il superfluo, non l’essenziale; non toccano, se non nei momenti in cui è d’obbligo sostenere una prova d’esame, gli “studenti”, non li influenzano, non li spingono a dare il meglio di se stessi; estranei a ciò che fanno, al luogo in cui si trovano e che dovrebbe prepararli a essere l’élite della società di domani, gli alfieri di questa generazione che non ha alcuna coscienza di sé riescono a prestare attenzione solo alle pulsioni elementari e al richiamo irresistibile del sesso.

Wolfe dipinge con sarcasmo amaro il disorientamento di Charlotte (e di tutto ciò che rappresenta); egli scrive e narra muovendosi lungo il filo sottilissimo della contraddizione, e così facendo spalanca le porte tanto alla leggerezza del riso quanto alla profondità della riflessione. Come è possibile, si chiede l’autore guardando con gli occhi della sua protagonista al sordido spettacolo di un mondo ideale disertato e tradito forse proprio in virtù della sua intangibile perfezione, che nulla o quasi ha a che vedere con il vivere quotidiano e le sue miserie, che una società possa sperare di sopravvivere se il meccanismo su cui si regge è da tempo andato in cortocircuito? Come è possibile pensare che possa avere una qualche influenza positiva un contesto che viene ignorato nei suoi pregi (i quali altro non sono se non gusci vuoti) e parallelamente inquinato proprio dalle azioni e dai comportamenti che dovrebbe insegnare a evitare? L’assurdo ordine di un mondo alla rovescia, nel quale le borse di studio per meriti sportivi (come quella assegnata al talentuoso giocatore di basket bianco Jojo Johanssen, uno dei moltissimi personaggi che popolano il lavoro di Wolfe), invece che essere un positivo esempio di inclusione scolastica (e cioè un modo per concedere un’opportunità anche a coloro che nelle classiche materie di studio non riescono a ottenere i risultati migliori) si rivelano, quasi si trattasse di un malefico incantesimo, una scorciatoia per dare una cattedra al più improbabile dei candidati (un coach che, nel citare la locuzione latina mens sana in corpore sana la attribuisce al filosofo greco Socrate), nella compiaciuta ironia fustigatrice dell’autore de Il falò delle vanità (già recensito nel blog) diverte e conquista, ma senza mai cessare di provocare, di incalzare, perché il suo affresco, per quanto vivace e sgargiante, e il trasparente j’accuse che in esso alberga, mitigato quanto si voglia dallo sberleffo, esigono una presa di posizione, una replica, una controargomentazione. In una parola, un’analisi, di cui l’agrodolce parabola di Charlotte Simmons non è che uno dei molteplici aspetti possibili.

Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Mondadori, è di Marta Matteini. Buona lettura.

Ogni volta che la toilette degli uomini si apriva, il terribile frastuono degli Swarm, la band che si stava scatenando nel teatro, al piano superiore, entrava con tale prepotenza, da rimbalzare su specchi e lavabi, sembrando ancora più assordante.

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