Recensione di “In fuga” di Alice Munro
Una frattura, un baratro che si spalanca d’improvviso interrompendo traumaticamente la rassicurante monotonia dei giorni che seguono ai giorni. Uno spezzarsi della vita, un frantumarsi di abitudini, uno sfarinare di certezze, un chimico dissolversi, un precipitare di emotive sostanze che tornano mutate in altro, a volte addirittura nel proprio opposto, a volte invece semplicemente rafforzate in quelle che un tempo non erano che sfumature, sospetti, pallide sensazioni, dalla loro esplorazione del tempo, da quel malato contrarsi degli anni che è incancellabile testimonianza del dolore provato.
L’abisso, la sua epifania, sconvolgente eppure in qualche misterioso modo attesa, quasi respirasse, al pari di una vita nel grembo materno, nella trama delle cose, in ciò che resiste al di sotto della mutevole superficie del mondo, e le conseguenze cui conduce, sono la chiave, contenutistica e narrativa della splendido e straziante volume di racconti di Alice Munro intitolato In fuga (in Italia edito da Einaudi nella traduzione di Susanna Basso). Nei suoi brevi, intensissimi quadri di vita (tre dei quali, i racconti intitolati Fatalità, Fra poco e Silenzio hanno identica protagonista e continuità tematica) la scrittrice canadese, premio Nobel per la Letteratura nel 2013, disegna ritratti di donne tormentate non tanto da ben identificate paure quanto dall’impossibilità di non cadere in qualche errore, di non inciampare in una distrazione, un infortunio, una leggerezza che potrebbe rivelarsi catastrofica.
Schiacciati da questo senso di insicurezza, tradite dalla vita stessa, dalla sua inconoscibilità, dalle sue lusinghe, dalle promesse, dalle minacce che colmano i destini dei singoli, i personaggi delle storie di Alice Munro somigliano a sagome fuori fuoco colte da fotografi maldestri; il loro esistere nel racconto è un immediato emergere alla luce, un disvelamento, quasi una confessione. Di loro nulla si conosce; il passato si riduce a qualche brandello di memoria, a legami imperfetti con un presente che odora di fragilità, dove ogni cosa sembra sul punto di crollare, ogni punto di riferimento prossimo a svanire. Ed è qui, in questo crocevia d’Edipo dove ad attendere i viandanti sembra esserci non la sorte maligna, o gli imperscrutabili decreti del Dio ma solo l’angoscioso silenzio del nulla, che tutto avviene; il tempo si smarrisce nel filo del ricordo, dove è nascosto, se non il senso ultimo di quel che sta accadendo, di certo la ragione in base alla quale determinate cose si stanno verificando, per cui non è possibile non avanzare nella penombra di un equilibrio spezzato – come fa, per esempio, Carla, l’eroina del primo racconto, quando, persuasa che la propria infelicità dipenda dal suo matrimonio con Clark, decide di lasciarlo, ma una volta a bordo dell’autobus diretto a Toronto e una libertà finalmente riconquistata si rende conto di non aver fatto altro che mentire a se stessa – oppure balza di decenni in un domani appannato, simile a un bosco invaso dalla nebbia, dove è quasi impossibile distinguere animali e alberi, e qui a fatica ritrova se stesso, ripensandosi, ripercorrendo ciò che è stato e scoprendo perché che erano sfuggiti, come indizi trascurati nel corso di un’indagine. E quando il quadro si ricompone, lo spettacolo che ci si trova davanti è quello che offre uno specchio rotto rimesso in sesto alla meglio, un’immagine che pur rispettando la totalità che riflette ne evidenzia le ferite, le asimmetrie, i difetti che non potranno mai essere sanati: “Continua a sperare di ricevere una parola da Penelope, ma senza perderci il sonno. Spera, come la gente di buon senso può sperare in una felicità immeritata, un perdono spontaneo, roba così”.
Lussureggiante e ricchissima e nello stesso tempo trattenuta, sospesa, cauta, la prosa di Alice Munro sfiora le esistenze che racconta, le osserva evitando ogni giudizio e alle debolezze che registra, alle cadute che mostra offre il sostegno della pietà, della comprensione; di più, dell’accettazione quieta e non rassegnata dell’imprevedibilità delle cose, dinanzi alle quali la nostra cecità è tanto debolezza quanto la sola, autentica forza.
Eccovi l’incipit del primo racconto, intitolato, come il libro, In fuga. Buona lettura.
Carla udì l’automobile prima di vederla spuntare dalla modesta salita che da quelle parti chiamavano colle. È lei, pensò. Mrs Jamieson – Sylvia – di ritorno dalle vacanze in Grecia.