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Sein, Jahvè e la pazzia

Recensione di “Trilogia di Valis” di Philip K. Dick

Philip K. Dick, Trilogia di Valis, Fanucci

L’essere, l’essenza stessa dell’esistere, la purezza dell’heideggeriano Sein, e insieme l’assoluta potenza del puro atto creatore, dell’impulso primo che nel dare origine a ogni cosa è origine di sé, è autocoscienza divina, e l’in sé e per sé che Hegel ha portato alla perfezione idealistica recuperandolo da millenni di sapienza e misticismo, dalle opere dei filosofi, dalle sentenze dei Padri della Chiesa, dalle lettere di San Paolo e dal nome stesso di Dio, Jahvè, “Colui che è”.

L’essere, la forma della realtà così come l’uomo la conosce attraverso l’esperienza e il ragionamento, e nello stesso tempo il suo completo sovvertimento, il suo capovolgimento, l’irruzione dell’impossibile, dell’assurdo, dell’incredibile, di ciò di fronte al quale non ci si può arrendere se non per un atto di fede, per una rinuncia che è abbandono di tutto ciò che posso conoscere e contemporanea fusione con tutto ciò che è per definizione non conoscibile, non raggiungibile, non razionale (il credo quia absurdum di Tertulliano); l’essere come teofania, come manifestazione del divino che è negazione psicotica di qualsiasi evidenza, di qualsiasi certezza. È attorno a questo essere multiforme che è tutto e nulla, che è qualsiasi cosa e nessuna cosa nota, che è religione e pensiero (e forse la più perfetta manifestazione della follia) che ruota l’intera Trilogia di Valis, l’ultima opera dello scrittore americano Philip K. Dick. Così la presenta, rifacendosi alle parole dello stesso Dick, Carlo Pagetti nell’introduzione all’opera edita da Fanucci nella traduzione di Delio Zinoni (che si è occupato del primo volume, Valis) e Vittorio Curtoni (che ha lavorato sui restanti due, Divina invasione e La trasmisgrazione di Timothy Archer): “«Mi sembra di vivere sempre più dentro i miei romanzi. Non riesco a immaginarmi perché. Sto perdendo il contatto con la realtà? O forse è la realtà a scivolare verso un certo tipo di atmosfera alla Philip Dick? E se è questo che succede, per amor di Dio, perché? Sono io il responsabile? Come faccio a essere io il responsabile?» Così si interroga, senza trovare ovviamente una risposta, Philip K. Dick in una delle annotazioni che formano il magnum opus incompiuto della Exegesis, iniziato dopo le apparizioni che trasformano la vita dello scrittore nel febbraio e nel marzo 1974 […]. Un raggio rosa che lo informa caricandolo di notizie preziose (anche sulle cattive condizioni di salute del figlioletto Christopher), la comparsa di una fanciulla che porta il segno cristiano del pesce, l’impressione di vivere parallelamente nella California del presente e nella Roma imperiale del I secolo dopo Cristo: questi eventi misteriosi proiettano Dick in una nuova dimensione dell’esistenza, che egli cercherà di elaborare ‘filosoficamente’ e soprattutto narrativamente nel resto della sua vita”.

Frutto di questo sforzo di elaborazione (ma forse sarebbe più esatto dire di analisi e successiva decodifica) è la Trilogia di Valis, il cui protagonista indiscusso è il pensiero, l’attività frenetica, spasmodica, di ricerca della verità, una verità che vive al di là dei fenomeni e di tutto quanto ci è familiare, e che si rivela come totale assenza di regole; Valis, che nel primo romanzo è un satellite, è Dio, è la sua misericordia, è conoscenza, è rivelazione (la rivelazione che l’universo è solo ed esclusivamente informazione, informazione di cui non sappiamo nulla) è un momento di folgorazione che investe Horselover Fat l’alter ego anche nominale dello scrittore (che nel romanzo si scinde nelle persone dell’io narrante e di Fat sia per dare dimostrazione della profondità del suo delirio sia per cogliere, in esso, le tracce di un disegno, di un motivo, il metafisico filo d’Arianna che potrebbe condurre l’uomo, cioè l’umanità tutta, al risveglio, all’Età dell’Oro, all’Eden), nel secondo volume del travolgente lavoro dickiano è la divinità che si incarna in una donna malata e sofferente, che trascina la propria vita infelice in un pianeta alieno lontanissimo dalla Terra (dove dominano una sorta di Chiesa Universale e un Partito Comunista onnipresente cresciuto a dismisura come un’escrescenza tumorale) e che in virtù di questo inaspettato ruolo (lei rimane incinta vergine, come Maria) deve fare ritorno alla propria casa per dare inizio alla salvezza di tutti, mentre nel terzo è un vescovo, il Timothy Archer del titolo, uomo di non comune saggezza e sapienza che un giorno si ritrova a dover studiare documenti le cui rivelazioni minano alla radice non solo la sua fede, ma il cristianesimo stesso.

Valis, senza alcun dubbio uno dei lavori più potenti di Dick, è dunque inafferrabile allo stesso modo dell’essere, e proprio per questo ineludibile, è il senso di ogni cosa, è ciò che per sua natura non bisogna mai smettere di cercare, ciò a cui non si deve cessare di anelare e, con ogni probabilità, anche quel che mai si riuscirà a raggiungere. Valis è il vero nella sua forma più autentica. E il vero, nella sua forma più autentica, è ciò che, con ogni probabilità, il reale in cui siamo immersi ha imprigionato nelle più profonde segrete del suo regno affinché nessuno possa mai scoprirlo. A meno di condannarsi, agli occhi del mondo, all’illusorio specchio deformante della malattia mentale.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

L’esaurimento nervoso di Horselover Fat cominciò il giorno in cui ricevette la telefonata di Gloria, con cui gli chiedeva se avesse del Nembutal. Lui le domandò perché lo volesse, e lei rispose che aveva intenzione di uccidersi.

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