Recensione di “Gli invisibili” di Roy Jacobsen
Un’isola che è poco più di una briciola di terra, uno scoglio perduto nell’immensità del mare, schiacciato dall’infinità del cielo.
Un’isola che somiglia a un grembo, a un uovo che si schiude per far posto alla vita, e che la vita, seppur precariamente, ospita e nutre, offrendo spazi da coltivare, aree sulle quali costruire, spiagge dove attraccare e da cui partire, e rocce da dove è possibile pescare. Barrøy, in Norvegia, al largo dell’arcipelago delle Lofoten, è un’isola di questo genere, un’isola-casa, qualcosa di così piccolo e fragile da non essere altro che il riparo e il sostentamento della sola famiglia che vive lì; una presenza silenziosa che sopporta l’affanno dell’uomo, ne amplifica le sofferenze nel gelo feroce dell’inverno, nella irrefrenabile violenza delle tempeste, nell’inquieta imprevedibilità del mare; ne sorveglia gli sforzi, il lavoro continuo e massacrante necessario per strappare agli elementi un po’ di sicurezza in più, un altro giorno di vita; ne allevia i patimenti nella fuggevole bellezza dell’estate, nel suolo che torna a farsi ricco, nell’eterno ritorno degli uccelli. Barrøy, e coloro che ci vivono, il capofamiglia Hans, sua moglie Maria, la sorella Barbro, non completamente normale ma più di tutti gli altri in sintonia con l’isola e la natura e infine la figlia Ingrid, cui spetta il compito difficilissimo di ereditare lo spirito di quel luogo, di far propria l’ostinazione paterna, sono i protagonisti dello splendido romanzo Gli invisibili di Roy Jacobsen (in Italia pubblicato da Bompiani nella traduzione di Ingrid Basso), evocativa narrazione di piccole cose, di una quotidianità che nel suo semplice svolgersi sembra sfuggire qualsiasi descrizione e tuttavia, in quel respiro così normale, così ordinario, lascia tracce, si fa eco, diviene lucente materia narrativa: “A Barrøy le case sorgono in un semicerchio irregolare. Viste dall’alto sembrano quattro dadi lanciati a caso – più la cantina per le patate, che in inverno diventa un igloo – collegati da viottoli in pietra, con stendibiancheria e camminamenti d’erba che si irradiano in tutte le direzioni. In realtà formano un cuneo contro il maltempo, così da resistere persino al mare, se mai dovesse rovesciarsi sull’isola. Nessuno può prendersi il merito dell’ingegnosa disposizione: è il frutto di una saggezza collettiva, fatta di esperienze pagate a caro prezzo […]. A Barrøy, quando Barbro era piccola, le bambine non avevano sedie. Mangiavano in piedi accanto al tavolo. Delle donne di casa solo sua madre Kaja poteva sedersi, e aveva cominciato a farlo dopo aver dato alla luce il primo figlio. Poi Kaja era morta e Barbro ne aveva chiesto per sé la sedia ma Hans l’aveva data a Maria, appena diventata sua moglie. Poco dopo anche Erling, il fratello maggiore, si era sposato e si era trasferito su un’altra isola più ricca. Dunque sia Barbro sia Maria avevano ottenuto una sedia, più o meno nello stesso momento. Ingrid invece aveva solo tre anni quando suo padre ne aveva costruita una apposta per lei, con i braccioli, sui quali si poteva appoggiare un’asse: lei avrebbe potuto sistemarcisi su con i piedi posati sulla seduta fino a quando non fosse diventata più grande, e allora sarebbe stata tolta l’asse. Era finita un’epoca”.
Nel lento svolgersi di un tempo scandito dall’alternarsi delle stagioni, da epoche che tramontano e sorgono al cambiare di abitudini radicate da decenni, dall’apparente, meccanica ripetitività dei gesti che misteriosamente imparano dagli errori compiuti, e poco alla volta migliorano, allo stesso modo in cui giorno dopo giorno si fanno più sicuri i passi dei bambini – le mani che costruiscono le reti necessarie alla pesca, che sistemano la torba, indispensabile a riscaldarsi durante la lunga stagione fredda, in modo che, prima dell’utilizzo, asciughi perfettamente, che realizzano migliorie nella speranza che vento e mare rimangano quieti finché ogni cosa non sia terminata e che pazienti riprendono da capo la propria fatica quando le tempeste infuriano e al loro passaggio spazzano via tutto ciò che non abbia l’antica forza dell’abitazione, della casa, del riparo ultimo, definitivo – l’esistere è uno scintillare pallido, un atto di volontà e non di ribellione, una commovente dimostrazione d’amore cui lo scrittore norvegese dona la grazia di una prosa allo stesso tempo lieve e indimenticabile, quasi magica nel disegnare la meraviglia inesplicabile della realtà e colma di compassione nel progressivo disvelamento della natura umana: “Ingrid ha cominciato la scuola. È la madre ad accompagnarla il primo giorno, con la barca, fino a Havstein. Ridono molto durante il viaggio. Maria le racconta degli aneddoti del suo primo giorno di scuola, sembra sentirne la mancanza. Ingrid le chiede se anche lei sia stata piccola e Maria scoppia a ridere: dice di sì, e all’improvviso quella risposta sembra un miscuglio tra un segreto e una domanda. Poi aggiunge seria che lei non ha avuto un padre buono come sua figlia. Ingrid le chiede se il padre fosse dunque cattivo e Maria risponde di no. Ingrid non trova nessun’altra domanda da porle e Maria non svela di più”.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Una giornata di luglio, senza vento. Il fumo sale dritto verso il cielo. Una barca a remi sta portando Johannes Malmberget, pastore d’anime, dal contadino e pescatore Hans Barrøy, legittimo proprietario dell’isola e capo dell’unica famiglia che la abita.
Libro interessante!
Molto!