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“La presente per comunicarle…”

Recensione di “Un regalo del Führer” di Charles Lewinsky

Charles Lewinsky, Un regalo del Führer, Einaudi

La presente per comunicarle che lei è stato inserito nei ranghi del trasporto. La neutralità apparente del linguaggio burocratico, la sua impersonale lontananza e la calcolata freddezza che vanno in frantumi dinanzi alla tragedia e loro malgrado svelano (addirittura denunciandolo, seppur non consapevolmente, bensì per una sorta di riflesso involontario) l’orrore dello sterminio pianificato in tutti i suoi dettagli, la perfezione assassina del lucido delirio antisemita nazista.

La presente per comunicarle che deve tenersi pronto a partire per Auschwitz, l’ultima tappa dell’inferno della deportazione, della sistematica umiliazione dei campi di concentramento, dell’oscena finzione di Theresienstadt, il “fiore all’occhiello” dell’architettura concentrazionaria hitleriana, la “struttura di internamento” destinata a ospitare i più eminenti tra gli artisti e gli intellettuali mitteleuropei”. I più eminenti tra gli ebrei, la razza maledetta. Ed è questa comunicazione, questa convocazione che un giorno, a guerra purtroppo solo quasi terminata, con il “glorioso” esercito del Reich decimato ma non ancora completamente sconfitto, giunge al celebre prigioniero, all’illustre “sporco ebreo” Kurt Gerron, in arte Gerson, cantante, attore e regista di fama, autentica stella di prima grandezza nella Germania degli anni venti. Una stella, sfortunatamente per lui, giudaica, una stella gialla, come quella che il regime gli impone di portare cucita addosso, e che segnerà, oltre al suo destino, quello della moglie Olga. A raccontare la storia di Gerson, il suo internamento a Theresienstadt e soprattutto il dilemma morale cui lo sottopone il comandante del campo, è lo scrittore svizzero Charles Lewinsky nello splendido romanzo intitolato Un regalo del Führer (in Italia edito da Einaudi nella traduzione di Valentina Tortelli).

Lewinsky introduce subito il lettore nell’atmosfera carica di angoscia e paura del lager; l’azione è immediata, e nello stesso tempo è il pretesto perché il racconto possa cominciare. Rahm, comandante di Theresienstadt, ha bisogno di Gerson, ha bisogno che quell’uomo torni ciò che era prima dell’avvento del nazionalsocialismo, della presa del potere da parte dei massacratori, dei contabili del genocidio, ha bisogno che quell’ebreo ridotto all’ombra di se stesso rifiorisca e ricominci a essere il regista che era stato in un passato recente eppure già lontanissimo; perché Rahm da Gerson vuole un film, un film su Theresienstadt, una pellicola-menzogna che mostri al mondo che i campi di concentramento e sterminio sono un’invenzione della propaganda nemica, una schifosa bugia propalata esclusivamente a fini bellici. Gerson ha tre giorni di tempo per decidere (ma può davvero decidere, dal momento che un suo rifiuto comporterebbe l’immediata partenza sua e della moglie per Auschwitz?), tre giorni nel corso dei quali egli ripercorre per intero la propria vita; dall’infanzia vissuta nell’ovattata e rigida atmosfera borghese della famiglia (e per molti versi dominata dall’eccentricità e dalla bizzarria del nonno, infaticabile inventore di storie amatissimo dal piccolo Kurt), all’esperienza terribile del primo conflitto mondiale (che lascerà sul suo corpo il segno indelebile di una grave ferita), fino all’enorme successo (il lavoro con Brecht, la partecipazione al film L’angelo azzurro accanto a Marlene Dietrich, il sodalizio artistico e umano con Peter Lorre), Gerson ricorda con nostalgia, rabbia, impotenza, maledicendosi per aver compreso troppo tardi quel che stava succedendo intorno a lui, incolpandosi di aver voluto a tutti costi restare artista, personaggio, divo, quando la sola cosa che contasse veramente era essere uomo, essere ebreo, e in quanto ebreo guardare in faccia la realtà.

La scrittura di Lewinsky lascia senza fiato per capacità di invenzione, per potenza espressiva, per radicalità, per incisività. Le sue battute, spesso fulminanti, ricordano l’efficacia brutale del cabaret, lo scintillare puro del gioco di parole che non è soltanto musicalità del senso, armonia del significato, ma, nella sua bellezza esteriore, lingua che colpisce il bersaglio proprio al centro, pietra scagliata con chirurgica precisione, lama che arriva al cuore “Hanno mandato i miei genitori a Sobibór. E ora dovrei aiutarli a mentire al mondo e raccontare che con noi in realtà sono stati gentilissimi? «Il volto ridente di Theresienstadt». Parole di Rahm. Il volto ridente della fame, della malattia e della morte. Regia: Kurt Gerron. Che uomo sarei se lo facessi? Un uomo che non viene mandato ad Auschwitz. Un uomo che meriterebbe di essere mandato ad Auschwitz”.

L’unicità del registro narrativo di Lewinsky seduce e scandalizza, lasciando letteralmente senza fiato; tra le sue pagine, è come se nulla o quasi dell’incubo nazista fosse stato scritto, analizzato, denunciato, testimoniato, riportato, consegnato alla posterità; egli riesce a illuminare la più oscura parentesi del Novecento di una luce nuova consegnandoci, rivista nella libertà creatrice della letteratura, una storia tra milioni di altre; una storia che, come milioni di altre, non va dimenticata.

Eccovi, invece dell’incipit, la nota che chiude questo meraviglioso lavoro, che di cuore vi invito a leggere.

Molte cose in questo romanzo sono inventate. Una purtroppo no: il 30 ottobre 1944 Kurt Gerron e sua moglie Olga furono assassinati ad Auschwitz. Le uccisioni nelle camere a gas cessarono definitivamente tre giorni dopo. Il film su Theresienstadt fu montato e sonorizzato dal cameraman Ivan Fric.

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