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“Non puoi capire davvero se non ci sei stato”

Recensione di “Matterhorn” di Karl Marlantes

Karl Marlantes, Matterhorn, Rizzoli

È difficile pensare che la guerra abbia le sue abitudini, che, proprio come la vita di ognuno di noi, si consumi nella routine, nella noia, nell’indifferente, automatica reiterazione di gesti, comportamenti, doveri da assolvere, corvée assegnate da portare a termine. Eppure è proprio così ed è forse questo l’aspetto più terrificante: la sua normalità.

Non la tragedia incomprensibile dello scontro, il selvaggio crepitare delle armi, lo sconvolgimento psicofisico causato dai bombardamenti di obici e mortai, gli assalti feroci e disperati, i corpi mutilati, l’odio indotto per un nemico che in realtà non si conosce (e che dunque non si ha alcun motivo di odiare); non la folle paura di morire – che in realtà è la più limpida espressione della voglia di vivere – né la sete di sangue, né la presa di coscienza che uccidere, annientare, è un istinto naturale dell’essere umano; quel che rende la guerra la più infernale delle esperienze è la sua ripetitività, perché a riproporsi è l’ordinario, non l’eccezione. Nel suo splendido, lacerante Matterhorn, romanzo sulla guerra del Vietnam, Karl Marlantes, giovane laureato di Yale arruolatosi nel corpo dei marines nel 1968 e spedito al fronte, non lontano dal confine con il Laos, a combattere contro l’esercito nordvietnamita, racconta quel che ha vissuto concentrandosi proprio sull’assurdo paradosso che è poi la verità ultima del conflitto: la “banalità” del suo procedere.

Attraverso il suo alter ego Mellas, l’autore porta il lettore a contatto con l’impenetrabilità della giungla asiatica, dove squadre di soldati americani appena maggiorenni marciano fino a sfiancarsi in obbligatorie operazioni di pattugliamento del territorio – i sensi all’erta per intercettare il nemico un attimo prima che sia troppo tardi – tormentati dall’ulcera tropicale che devasta la pelle moltiplicandosi in piaghe purulente e rende quasi impossibile l’uso delle mani, dalle sanguisughe che si insinuano in ogni fessura della mimetica (al principio del romanzo, un soldato, dopo aver scoperto con orrore che uno di quei vermi gli è penetrato all’interno del pene, viene operato d’urgenza da un medico non qualificato, in condizioni igieniche nulle, nel fango delle trincee di una base di fuoco, al riparo improvvisato di una tenda, con la luce di una candela a illuminare quello spazio e a fornire l’unica sterilizzazione per gli “strumenti chirurgici”; una situazione consueta, normale per i marines), dalle immense distese di erba degli elefanti da attraversare (un tipo particolare di vegetazione simile a bambù, alta più di un uomo e tagliente ai bordi), dal dolore insopportabile ai piedi, che, costretti per giorni interi negli anfibi, poco alla volta perdono sensibilità, si ulcerano, si infettano e infine vanno in cancrena (patologia nota come piede da trincea). Nel racconto di Marlantes, insieme essenziale e intensissimo, crudele come riesce a esserlo soltanto l’incontestabile verità dei fatti, la sofferenza degli uomini ha la concretezza spietata della terra; i marines, sfiniti dalla fatica della marcia, bersagliati dai morsi di zanzara (che possono trasmettere la letale malaria cerebrale), una volta tornati alla base, obbligati a occuparsi del proprio perimetro difensivo, risistemano i bunker meccanicamente, senza riuscire a pensare a nulla, muniti solo di una piccola vanga d’ordinanza, poi è il momento dei turni di guardia, quando la notte scende sulla giungla come un’enorme coperta e nessuno vede più nulla; ed è allora che comincia un’altra lotta, quella contro lo stanchezza che ha ormai superato ogni limite, contro il desiderio di chiudere gli occhi e lasciarsi vincere dal sonno, non importa se i vietnamiti approfitteranno della situazione per avvicinarsi e colpire, non importa, il corpo chiede solo un po’ di pace, soltanto qualche ora di oblio… finché a est la luce non torna a fare capolino, e tutto ricomincia.

La narrazione, anche se concentrata sull’odissea di una sola compagnia (nome in codice Bravo, primo battaglione, ventiquattresimo reggimento, quinta divisione), vittima degli ordini contradditori dei superiori, ha un respiro molto più ampio: nei vissuti di ogni singolo uomo, l’autore, con impressionante sensibilità, con la partecipazione commossa e violenta di chi sa cosa abbia significato davvero per centinaia di migliaia di ragazzi quel che descrive (forse in nessun altro libro si riesce comprendere, in tutta la sua profonda, angosciante verità, il senso della frase “non puoi capire davvero se non ci sei stato”), dà voce allo stato d’animo di tutti i soldati che hanno combattuto la “sporca guerra”: alle tensioni razziste tra bianchi e neri, messe da parte solo di fronte al nemico, quando ogni marine è fratello all’altro, e per ciascuno di loro vale, come promessa solenne, il motto dell’intero corpo, Semper Fidelis; all’affannata ricerca di un senso, di un perché che possa spiegare l’ininterrotto sacrificio di quelle giovani vite (tanto quelle americane quanto quelle vietnamite); all’euforia malata dei sopravvissuti a un assalto, subito sostituita dalla consapevolezza che quella battaglia, appena conclusa, domani si combatterà ancora e ancora, in un cortocircuito di attacchi e contrattacchi replicati senza posa, fino alla pietà amara per ogni compagno caduto, per il vuoto incolmabile lasciato dalla morte.

Matterhorn è un romanzo bellissimo, autentico, sincero come una confessione, che penetra nella carne come una ferita e brucia come sudore negli occhi. Nel suo crudo realismo è un’indimenticabile allegoria della condizione umana. Leggetelo, non vi abbandonerà più.

Eccovi l’inizio. Buona lettura.

Sotto le grigie nuvole monsoniche, Mellas si trovava nella striscia di terreno sgombro fra il limitare della giungla e la relativa sicurezza della recinzione di filo spinato. Cercò di concentrarsi sulla conta degli altri tredici marines della pattuglia, che stavano riemergendo in fila indiana dalla vegetazione, ma era sfinito, e non fu impresa facile. Provò anche, senza successo, a ignorare l’odore della merda galleggiante nelle fosse semipiene che fungevano da latrina a cielo aperto e che incombevano su di lui, appena dietro la recinzione.

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