Recensione di “Proust per bagnanti” di Emanuele Pettener
C’è solo un essere più onnipotente di Dio: la madre. Madre che ci genera, impone la vita. E poi determina anche cosa sarà di noi, cosa “saremo”noi. Perché il come saremo dipende sostanzialmente dalla misura dell’amore che lei riuscirà a darci. Sarà quell’amore primitivo e originario che stabilirà che tipo di persone emotive saremo. Sempre e solo quell’amore.
E tutti gli altri rapporti affettivi che si svilupperanno nel corso dell’esistenza saranno improntati al suo abbraccio, alle sue carezze e ai suoi sorrisi. E più ne avremo, più l’amore inietterà radici profonde dentro di noi, che ci salveranno da tutto. Quell’amore cieco e gratuito ci farà da scudo contro gli assalti della vita: garantirà immunità dalle cadute, suturerà cicatrici, riempirà voragini, ci guarirà dai dolori e dagli abbandoni che seguiranno. Ma quando quell’abbraccio manca, la nostra natura di esseri sentimentali si aggroviglia attorno a un’idea di amore estraneo, lontano e malato. E quelle domande sulla natura del non “amore” rimarranno sospese sulla nostra anima per sempre, investendo tutto, perfino la capacità dell’annullamento sensuale nei confronti dei nostri stessi figli. Oppure l’essere sentimentale si lancerà alla ricerca disperata di quell’amore perduto. E quella ricerca diventerà il nodo – spesso scorsoio – della sua esistenza. È una “recherche” per l’appunto proustiana, Proust per bagnanti, delizioso, piccolo romanzo di Emanuele Pettener nel quale cercare “il tempo perduto” corrisponde a immergersi nel ricordo – sempre attuale e bruciante nella vita dei protagonisti – del generatore eterno del bene e del male: la madre.
“Il cuore di madre è un abisso”, diceva Balzac, e aggiungeva: “in fondo al quale si trova sempre un perdono”. E deve essere davvero così per l’autore, se i protagonisti di questa storia a tre voci finiscono per trovare, alla fine dei loro viaggi per terra e per mari, il loro approdo. Più o meno sereno. Emanuele Pettener, che di abissi se ne intende, essendo partito venti anni fa dalla laguna veneta per raggiungere le coste della Florida, “surfa” – con la sua agile penna – sulle onde del destino dei suoi personaggi. È a tratti lieve, a tratti incisivo, talora feroce. È un navigatore esperto, di sentimenti e di parole per dirli. E riesce a farci avvertire – per tutto il tempo – il gusto agrodolce che, fatalmente, è quello della vita stessa. Sa raccontare. Sa catturare e avvincere. È un “natural born writer”: la sua scrittura è un’urgenza dell’anima, prima ancora che di cuore e di testa. Di testa, però, è la costruzione attenta di questo suo Proust per bagnanti. A cominciare dal titolo, che evoca lo scrittore più tradotto e letto di tutti i tempi; uno di quelli che l’animo umano l’ha esplorato in lungo e in largo, per ritornare poi al punto di partenza: il contenuto del tempo perduto, alla fine, non è che l’erosione della felicità infantile. E il suo ritrovamento passa attraverso la memoria e la trasposizione di questo tempo (interiore più che esteriore) nell’opera letteraria.
E così si procede: un dito puntato, che significa la condanna a perdere per sempre il bacio della buonanotte e le carezze di una madre. La memoria spontanea che scaturisce da un gesto senza appello, che ha delineato un destino. Il ricordare involontario, lo scavare nel tempo perduto, che è quasi ricreare, rivivere nel presente. Il tempo perduto che – ritrovato – diventa eterno, e permette ai personaggi di muoversi verso il loro destino, di riscattarsi. Alla fine non ha importanza quanto ci sia di autobiografico in questa vicenda insieme leggera, poetica, violenta, sconvolgente; con momenti di nostalgia e di struggimento toccanti, e un finale assolutamente imprevedibile. Quello che conta è che – per Pettener/Proust – l’unica vita veramente vissuta è quella raccontata. È la letteratura.
(Eleonora Molisani)
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Alfredo Crepuscolo se ne andava in caffetteria ogni giorno, attorno alle otto, prima di lezione. La caffetteria sta nel cuore del campus e, oltre al caffé, offre di tutto: a ruota si susseguono lo stand di cucina orientale Jin-Jow, vaporoso di odori grassi, e poi Salsarita’s, dove graziose Guatemalteche preparano empanadas e gazpacho, e ancora Papa John’s coi suoi panini farciti di polpette, e via dicendo.