Recensione di “Storia della bambina che volle fermare il tempo” di Jenny Erpenbeck
Se c’è qualcosa che ci arriva gratis, nella vita, quello è il nome. Ma in questa originale favola per adulti di Jenny Erpenbeck, intitolata Storia della bambina che volle fermare il tempo, la piccola protagonista erutta dalla penna dell’autrice già defraudata di quello che ci definisce come umani. Trovata dalla polizia di notte, con un secchio in mano è – e rimarrà – “la ragazzina” senza identità, dalla prima all’ultima riga di questo magma incandescente che si consuma fino al suo imprevedibile e sconcertante epilogo.
La ragazzina dichiara di avere 14 anni, di non ricordare chi siano i genitori; è brutta, goffa e sgraziata, ma soprattutto ha un fisico enorme e abnorme per la sua età. Un corpaccione che tiene compresso e represso, per non dare nell’occhio. E che agli occhi degli altri diventa invisibile proprio in quanto ripugnante. Ma la prima a invocare l’invisibilità è proprio la ragazzina. Che vive, o meglio, si lascia vivere, nel proposito certosino di guadagnare l’ultimo posto nella gerarchia sociale, perché – si sa – il gradino più basso è il più sicuro di tutti: quello che ci garantisce che ne saremo sempre all’altezza. Quello che non occorre conquistarsi con sforzi smisurati e che nessuno, mai, ci contenderà. Eppure non c’è niente come l’umiltà e la modestia a risucchiare e attrarre la malevolenza altrui, e così ecco che la ragazzina diventa il capro espiatorio di un’intera comunità di adolescenti, imbruttiti e incattiviti dalle avversità della vita, prigionieri di un orfanotrofio.
Il terreno del loro sadismo è fertilissimo, perché la sottomissione della ragazzina è perfetta, la sua obbedienza è addirittura anticipatrice, e questo piace ai ragazzini. Perché sono tiranni di natura, e quando trovano una facile preda ci vanno a nozze. Ed ecco allora che – dopo il periodo dell’oblio – si scoperchia il baratro dell’odio, delle torture fisiche e psicologiche a cui la ragazzina viene quotidianamente sottoposta. Quelle mani che vanno sotto la gonna, a cercare qualcosa che li attrae perché osceno, gli sputi nel suo piatto di ingorda e la carità degli avanzi, gli spintoni per farla precipitare nelle fredde e lorde pozzanghere, le sue mutandine rubate per farle assaporare il senso del ridicolo, gli appuntamenti mancati, le attese estenuanti per qualcosa o qualcuno che non arriveranno mai… C’è tutta la gamma delle possibili prepotenze nella quotidianità impresentabile della ragazzina. È la sua punizione, perché non c’è niente di peggio – agli occhi del mondo – di un servo che si comporta da servo di sua volontà. La ragazzina sa che il solo fatto di essere lì, a pretendere di essere loro coetanea e compagna di giochi, è di per sé una colpa e, desiderosa di espiare questa colpa, obbedisce muta al suo destino. Ci sono passaggi, in questa fiaba horror, di una durezza quasi intollerabile, come quando, legata al collo con una catena di bicicletta e lasciata come un cane nel bosco gelido, le cala addosso un pensiero di morte: “Il peso della mia vita aumenta. Il mio palazzo è di paglia. Si regge su una zampa di pollo, il pollo l’ho sgozzato io stessa. Quando c’è temporale, lo si sente ancora gridare. Io decoro il mio palazzo. Ne verrà fuori uno splendido inferno”. O come quando, per mettere per qualche attimo la vita tra parentesi, la ragazzina si annulla nel cibo, rosicchiando le ossa, leccando il sugo, pulendo con le dita gli stampi del budino, succhiando le ultime gocce dei vasetti vuoti, trattando il suo corpo come un deposito di materiali, un enorme cumulo cieco, capace solo di trascinarsi da una giornata vuota a quella successiva. In un vuoto senza eco, perché la ragazzina non ha un passato, si sente come qualcuno che si è rinsecchino nel corso del tempo a opera del fuoco e adesso è solo un ciocco spento. E non invidia il passato o il presente altrui, perché non avere una storia è l’unica garanzia per rimanere indisturbata in quell’orfanotrofio. Che a sua volta le garantisce di continuare a cullarsi nel limbo della sua condizione ottusa, senza un’età.
Ma cosa deve aver subito un essere umano per desiderare di essere dimenticato da tutti, perfino da chi gli ha dato la vita? E perché – se l’unico desiderio è l’oblio – la ragazzina continua a imbucare, tra le cassette marce, lettere indirizzate a sua madre? Forse un passato misterioso e inascoltato bussa alla porta della coscienza e, a un certo momento, sguscia indesiderato nella sua vita. Alla fine il destino si materializza, segno che la licenza di andare a spasso indisturbati nel giardino del tempo non può durare all’infinito. Qualcuno finirà vittima sull’altare di uno scherzo indecente e immondo? Non è detto, perché a volte l’infanzia continua a dondolarsi su un vasto, vastissimo mare di tempo. Per molti, addirittura, fino alla morte. E non è dato sapere se voler fermare l’attimo sia segno di follia. O il vero indice di sanità mentale.
(Eleonora Molisani)
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.