Recensione di “Memorie del presbiterio” di Emilio Praga e Roberto Sacchetti
Richiami manzoniani nella scelta dei luoghi e nella caratterizzazione psicologica dei personaggi, una struttura narrativa volutamente articolata che tuttavia rispetta con una diligenza perfino eccessiva stile e tecnica prima del romanzo d’appendice e poi del mystery, uno svolgimento sapiente della storia, che riserva non pochi colpi di scena, pagina dopo pagina cresce in tensione ma anche quando è prossima allo scioglimento finale continua a sfuggire al lettore, quasi fosse materia di un sogno, o forse di un incubo.
Memorie del presbiterio, degli scapigliati Emilio Praga e Roberto Sacchetti (il primo lasciò il lavoro incompleto a causa della morte prematura, l’amico lo concluse ma non fece in tempo a vederne l’uscita in volume – il romanzo, nel frattempo, era stato pubblicato a puntate sulla rivista Il Pungolo – perché anch’egli si spense in giovanissima età, a soli trentaquattro anni), nel panorama letterario italiano occupa un posto a sé. Sembra un innocuo esercizio di scuola, elegante nella scrittura nella misura in cui lo sono gli autori ma nulla più; piacevole, coinvolgente perfino (come devono esserlo i “gialli” degni di questo nome), ma sempre a un livello poco più che superficiale, adatto – o meglio adattato – a gusti tutto sommato semplici, elementari. E indubbiamente è tutto questo, ma non è qui che il romanzo si esaurisce, è vero invece il contrario: Memorie del presbiterio si offre a una lettura immediata, a un consumo ingenuo, ma nel modo in cui racconta, nel dipanarsi progressivo della trama – che procede in parallelo con la reale scoperta dei personaggi, in principio presentati in un determinato modo e poco alla volta svelati, smascherati – affronta un tema centrale, quello della verità, della possibilità di conoscerla e di esprimerla.
Celato nei toni lievi di un’avventura che almeno inizialmente ha il carattere della novella edificante (l’ambientazione è un paesino delle Alpi circondato da una natura rigogliosa, perfetta e gentile, e popolato da persone che nei modi e nel carattere sembrano rispecchiare il superumano equilibrio di quell’idilliaco angolo di mondo, e permettetemi per una volta di non aggiungere altro della trama), il romanzo insegue la verità, la possibilità stessa della verità, attraverso gradi diversi di consapevolezza. Il protagonista della storia, un giovane di nome Emilio, comincia il suo cammino patendo una feroce disillusione personale; l’entusiasmo che prova al suo arrivo in paese è di brevissima durata e crolla come un castello di carte non appena si rende conto che niente è come sembra, a partire dal luogo per finire con coloro che vi abitano, senza eccezioni. Il suo è un brusco risveglio, un approssimarsi alla conoscenza traumatico che consapevolmente ribalta la prospettiva “positiva” platonico-aristotelica (la filosofia, che è ricerca del vero, nasce dalla meraviglia, attitudine cognitiva che ci spinge a rendere ragione delle cose); da subito, dunque, la verità è vista come qualcosa di sfuggente, difficile da afferrare, non è un rassicurante approdo, bensì un’infida compagna di strada, dalla quale guardarsi. E le cose, naturalmente, peggiorano, perché mentre i contorni della vicenda nella quale Emilio si ritrova invischiato suo malgrado seppur tra mille difficoltà paiono chiarirsi, ecco che i “fatti” perdono d’oggettività non appena vengono enunciati.
La storia si avvolge su se stessa in spire sempre più soffocanti; Emilio, al quale tutti gli abitanti del paese confidano i propri segreti e il proprio punto di vista, non è più in grado di orientarsi in una vicenda labirintica, che come in un gioco di specchi moltiplica a dismisura l’illusione di verità, e anche quando i misteri si chiariscono quel che resta, al personaggio principale del romanzo così come al lettore, è un’amara sensazione di impotenza. L’ottocentesco ottimismo positivista, la sua fede nella ragione e nella scienza, la sua capacità d’indagine, la pretesa infallibilità dell’intelletto umano (purché adeguatamente preparato) si smarriscono dunque in uno sperduto paesino di montagna. Praga e Sacchetti regalano le conturbanti atmosfere del giallo alla tesi della sostanziale irriducibilità del reale (che ha tanti aspetti quante sono le persone che ne fanno parte) alla savia luce della speculazione; come scrive Gino Tellini nell’introduzione all’edizione Mursia del romanzo: “ormai sopiti e rifiutati gli eroici furori risorgimentali, mentre la cultura positivistica del tempo affilava con sicurezza le armi per la conquista del «vero» e del «progresso», sul versante scapigliato il romanzo di Don Luigi e di Rosilde, pur nato quasi per scommessa, con modestia artigianale e senza pretese, si asteneva dal riarmo e offriva di contro l’immagine di una realtà incrinata e in controluce, visitata dal dubbio e dall’ambiguità”.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Fra parecchie centinaia di versi che, in mancanza di meriti più assoluti, ebbero incontestabilmente quello di sciogliere per bene lo scilinguagnolo alla sonnolenta critica letteraria del bel Paese, v’hanno due componimenti sovra cui piovve con rara abbondanza la lode; la lode che è per l’anima di un autore ciò che è pei fiori la pia rugiada dell’alba.