Recensione di “Una bellezza russa” di Vladimir Nabokov
È la desolazione dell’uomo solo, privato della patria, derubato dell’odore della terra che lo ha visto nascere, dell’infinità del cielo sul quale ha spalancato gli occhi, della povertà delle case che lo hanno protetto, degli inconfondibili suoni da cui è stato cullato e che poco alla volta, giorno dopo giorno, sono divenuti la voce che egli ha donato al mondo, con la quale ha cercato di conoscerlo, provato a comprenderlo. È la tragedia di una solitudine per la quale non esiste rimedio; è lo scandalo di un abbandono assoluto, che puzza di morte, il cui vuoto incolmabile è quello di immensi campi bruciati, resi sterili dalla violenza feroce del fuoco; è il pianto liberato dinanzi a una bara aperta, quel colmare gli occhi di lacrime che non conosce comunanza e si chiude a ogni possibile comprensione; è il fallimento dell’amore come rimedio al dolore, il suo naufragio, specchio di quello esistenziale di chi sa che non potrà più rivedere il proprio Paese. Tutto questo è il filo rosso che unisce tra loro i racconti di Vladimir Nabokov pubblicati nella raccolta intitolata Una bellezza russa (in Italia edita da Adelphi nelle traduzioni di Dmitri Nabokov, Franca Pece, Anna Raffetto e Ugo Tessitore), un insieme di storie che del grande romanziere russo naturalizzato statunitense offre un profilo inedito. Quel che di questo magnifico scrittore ci hanno detto i romanzi, infatti – la sua ineguagliabile raffinatezza narrativa, la radicalità dei temi toccati, sfumata dalla perfezione della prosa ma in nulla depotenziata nella sua essenza, la filosofica circolarità dell’umorismo, tanto venato d’amarezza quanto vestito dei colori sgargianti della deformazione grottesca, via maestra per indicare il vero – qui è in buona misura messo da parte; in queste pagine a prevalere è un tono quasi dimesso, un grigiore uniforme, che è tanto nelle cose quanto nei personaggi, tanto nelle ambientazioni quanto negli interiori paesaggi dei protagonisti.
È un tempo malinconico quello di cui racconta Nabokov, un presente cristallizzato, congelato nell’eternità maligna di una sconfitta, nel rimpianto delle occasioni perdute che mai più torneranno, una parentesi di poco conto e poco momento coperta dalla polvere della nostalgia, rincorsa dai sussurri di una felicità ormai abbandonata, che ha la consistenza impalpabile del sogno e il fascino inconsistente dell’illusione; e in questo tempo, gli uomini e le donne nabokoviane nuotano con fatica, con affanno, alla costante ricerca di un approdo che sfuggirà loro non appena raggiunto, prigionieri di una precarietà impossibile da superare perché connaturata alle loro esistenze, misura esatta dei loro respiri, dei loro giorni. Nabokov è cupo in queste novelle; quando sorride, e lo fa di rado, il suo è uno stirarsi appena accennato delle labbra, un modo come altro per prendere atto dell’intrinseca follia delle cose, della malattia inguaribile di cui soffre l’essere umano. Le sue storie parlano sovente d’amore, ma più che il sentimento a emergere in esse sono delusione, infelicità, tradimento. Ed è soprattutto quest’ultimo a tornare, quasi si trattasse di un’ossessione, di un problema non risolto (e con ogni probabilità non risolvibile) intorno al quale tuttavia non è possibile smettere di arrovellarsi.
Il tradimento di coppia, metafora trasparente di un altro rapporto consumatosi con una strappo tragico, quello tra i Russi emigrati a forza e la propria nazione, sconvolta dalla rivoluzione prima e poi dal nuovo “ordine” nato da essa e da tutto il sangue versato nel suo nome, è dunque quasi tutto quel che resta alla galleria di burattini ormai senza più fili ritratti con partecipata compassione da Vladimir Nabokov, che guarda a questo esercito in rotta disperso nella gelida indifferenza delle città d’Europa (Berlino soprattutto, ma non mancano né l’altera magnificenza di Parigi né l’inquietante tranquillità della provincia americana, in apparenza così lontana dai tormenti e dalle angosce del Vecchio Continente) con sterile simpatia e ne narra il disordinato vagabondare facendone cronaca, memoria, assumendosi il compito di erigere un monumento letterario contro l’oblio, di costruire qualcosa che resista non solo al semplice passare del tempo ma, cosa ben più significativa, allo svanire definitivo di tutte quelle vite il cui dissolvimento è cominciato nel momento terribile dell’addio alla Russia.
Eccovi l’incipit del primo racconto della raccolta, intitolato Natasa. Buona lettura.
Sulle scale Natasa incontrò il vicino della camera accanto, il barone Vol’f: saliva gli spogli gradini di legno con una certa fatica, e intanto sfiorava con il palmo il corrimano e fischiettava tra i denti.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.