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Il piatto del potere

Recensione di “Il Paese dell’alcol” di Mo Yan

Mo Yan, Il Paese dell’alcol, Einaudi

“Cari studenti, non so se avete riflettuto sul fatto che a seguito del rapido sviluppo indotto dalle quattro modernizzazioni e del continuo aumento del tenore di vita della popolazione non si mangia più semplicemente per nutrirsi: il cibo è diventato un piacere estetico. Perciò, la cucina non è più una semplice tecnica, ma una vera e propria arte.

Un capocuoco deve avere gesti più precisi e abili di un chirurgo, deve possedere un senso del colore superiore a quello di un pittore, un odorato più fino di quello di un cane poliziotto e una lingua più sensibile di quella di un serpente. Il cuoco è la sintesi di tante discipline. Contemporaneamente, il palato dei buongustai si fa sempre più raffinato, hanno gusti sofisticati, apprezzano le novità e detestano le cose vecchie, sono estremamente volubili: insomma è sempre più difficile soddisfarli. Dobbiamo quindi fare grandi sforzi per inventare cose nuove che siano all’altezza delle loro esigenze. E questo è essenziale non solo per la prosperità e la gloria della municipalità di Jiuguo, ma anche per il successo personale di ciascuno di voi. Prima di passare alla lezione di oggi voglio presentarvi una pietanza particolarmente prelibata”.

La sostenuta eleganza del discorso accademico bagnata in un’ironia sottile e feroce; questi gli “espedienti letterari” indiretti per mezzo dei quali Mo Yan, uno dei massimi scrittori viventi, affronta nel suo romanzo intitolato Il Paese dell’alcol l’atroce tabù del cannibalismo, la più folle, assoluta perversione di tutto ciò che più dirsi umano, e che tra queste pagine raggiunge il suo livello più alto e tragico, perché ciò che viene servito ai potenti e alle persone più eminenti che si accomodano ai tavoli dei migliori ristoranti di Jiuguo, territorio divenuto ricco grazie alla distillazione di numerosissimi liquori, non è semplicemente carne umana, ma carne di bambino.

L’architettura narrativa appena descritta, tuttavia, rende ragione soltanto in modo parziale del senso e del procedere di questo romanzo al tempo stesso terribile e divertente, tragico e spassoso, perché ai già citati “espedienti indiretti” il grande autore cinese, premio Nobel per la Letteratura nel 2012, affianca una geniale costruzione metaletteraria; egli, infatti, nel raccontare le vicende dell’ispettore della Procura suprema Ding Gou’er, inviato dai suoi superiori a Jiuguo per investigare su questo innominabile traffico di carne umana, a più riprese spezza quello che dovrebbe essere il filo narrativo principale per inserire, tra un momento e l’altro, un fitto carteggio tra un dottorando in distillazione innamorato della scrittura e lo stesso Mo Yan, che insieme alle missive del suo discepolo riceve anche una serie di racconti, tutti in qualche misura parte della storia principale, tutti, in una parola, pezzi di un puzzle che si fa via via più intricato e che, a un certo punto, vede proprio l’autore finire inghiottito negli ingranaggi della macchina cui ha dato vita e ritrovarsi personaggio tra gli altri, carattere di carta prigioniero del perverso gioco tanto a lungo meditato e infine realizzato così bene da riuscire a vivere di vita propria.

Così, in un diabolico gioco di specchi nel quale la verità è dappertutto e in nessun luogo, Ding Gou’er, doppio di Mo Yan senza esserne banalmente l’alter ego, non solo non porta a termine l’investigazione ma finisce per perdere se stesso, vinto dall’alcol che da ogni parte lo stringe d’assedio e dalle grazie di una donna tanto affascinante quanto misteriosa e inafferrabile; e come per un destino condiviso, al naufragio del poliziotto corrisponde quello di Mo Yan, maestro venerato che, non appena giunto a Jiuguo, soccombe all’atmosfera unica di quel luogo, dove a regnare sono una seduzione malsana e l’onnipotenza oscura dell’alcol, capace di distruggere le coscienze prima dei corpi, di rendere schiava la volontà, di annullare l’intelligenza, di cancellare qualsiasi capacità di giudizio. È il mistero, dunque, ciò che resta di Jiuguo (e a Jiuguo) dopo il passaggio di Ding Gou’er e Mo Yan, un mistero spaventoso, che la letteratura è riuscita soltanto a evocare, ritraendosi poi spaventata dinanzi alla creatura che le comparsa davanti.

Eccovi l’incipit del romanzo (a cura di Maria Rita Masci), la traduzione, per Einaudi è di Silvia Calamandrei. Buona lettura.

L’ispettore Ding Gou’er, della Procura suprema, era salito su un camion Jiefang diretto alla miniera di carbone del monte Luo. Dove doveva svolgere un’indagine molto particolare.

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