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Sorella morte

Recensione di “Le vergini suicide” di Jeffrey Eugenides

Jeffrey Eugenides, Le vergini suicide, Mondadori

Cinque sorelle, cinque adolescenti che scelgono di darsi la morte, di spezzare la trama quasi invisibile delle loro esistenze in un’estate in apparenza identica a tutte le altre, nel caldo opprimente di un mese di giugno segnato dall’invasione fragile delle crisope, insetti la cui vita si esaurisce in ventiquattr’ore.

“Era giugno, la stagione delle crisope, l’epoca dell’anno in cui le spoglie di quegli insetti effimeri ricoprono la città. Levandosi a nugoli dalle alghe che vivono nelle acque inquinate del lago, vanno ad annerire finestre, ad ammantare automobili e lampioni, a tappezzare i dock municipali e a ornare di festoni il sartiame delle barche a vela: una schiuma volante, brunastra, con il dono perenne dell’ubiquità”. Cinque sorelle, Cecilia, Therese, Bonnie, Lux e Mary Lisbon – involontario centro di gravità di un sobborgo residenziale come tanti, fuoco dell’attenzione, dei desideri, e infine dei ricordi intrisi di dolore, rimorso, umiliazione e ignoranza di amici e compagni di scuola che, nel tempo dilatato che la giovinezza si concede per conoscere se stessa, silenziosi, goffi e sinceri avevano amato quelle figure quasi irreali con un’intensità che mai più sarebbero stati capaci di provare – che incarnano il mistero insolubile dell’essere, che si misurano con l’incomprensibilità del mondo, presente allo stesso modo nella soffocante miopia delle regole educative imposte dai genitori ai propri figli e nelle grandi e piccole ingiustizie, nelle tragedie, nelle follie che squarciano individui, famiglie, città e interi continenti. Cinque sorelle, e un piccolo, definito universo che ruota loro attorno e le osserva attonito disintegrarsi, farsi nulla prima ancora di giungere a essere qualcosa, raccontati con accenti di commosso candore e umanissima grazia da Jeffrey Eugenides nel suo splendido romanzo d’esordio, Le vergini suicide, in Italia edito da Mondadori nella traduzione di Cristina Stella.

Nel farsi voce narrante unica della memoria collettiva di coloro che Mary, Bonnie, Lux, Cecilia e Therese avevano eletto a muse, a guide, a ideali di irraggiungibile perfezione (forse perché la famiglia Lisbon, nel quartiere, era la sola composta da cinque ragazze, oppure perché le loro vite erano quasi del tutto sconosciute pur svolgendosi in mezzo a quelle di ogni altro, perché la loro presenza era inconsistente, liquida, inafferrabile, quasi forse una sorta di strana mancanza, un particolarissimo modo di essere tra le cose senza mai essere nelle cose, o ancora perché nessuna di loro, probabilmente, voleva davvero salvarsi, anche se non vi fu mai chi potesse affermare con assoluta certezza che ognuna di loro anelasse al suicidio, alla definitiva conclusione di tutto), Eugenides dona alla propria prosa un miracoloso equilibrio emotivo. Da subito egli lascia che a investire il lettore sia la morte, anticipando quella che sarà la fine dell’ultima delle sorelle (Mary) nel momento stesso in cui introduce il principio di quello spaventoso dramma corale; un inizio, un incipit che consapevolmente rinuncia a qualsiasi artificio letterario per immergersi in ciò che è per definizione umano, nella stanchezza, nella paura, nel vuoto, nell’eco infinita di un’infelicità inesplicabile che vieta agli occhi e al cuore di vedere altro da quel palcoscenico polveroso di un teatro abbandonato cui finisce per ridursi qualsiasi esistenza che accetti supina il semplice scorrere del tempo: nel tentativo di suicidio (fallito) della più giovane delle ragazze Lisbon, Cecilia: “Ad aprire la serie era stata Cecilia, la minore, di tredici anni appena, che si era tagliata le vene nella vasca da bagno come uno Stoico”.

È da questa resistenza (inutile, a conti fatti) della vita alla pulsione che vorrebbe annientarla che prende le mosse il sacrificio di tutte le giovani; come in una partita a scacchi nella quale le sorelle e coloro che, ricordandole, ne ricostruiscono le vicende (opache, tutto considerato banali, ordinarie quasi, prima ancora che terribili) paiono vestire il ruolo di inconsapevoli pedine mosse dalla volontà maligna di un dio dispettoso e violento, o forse dell’imperscrutabile bizzarria del caso, ogni cosa fluisce verso l’inevitabile; in questo senso la scrittura di Eugenides ha la rotondità compiuta, intoccabile, della tragedia classica, dove ogni cosa è già decisa e non esiste possibilità di salvezza; accanto al Fato onnipotente, tuttavia, l’autore di Middlesex (la recensione, nel caso vi interessi, la trovate qui) si apre e si abbandona a quel che non può essere spiegato, all’ignoto, a quel “morire senza un perché” che lascia ai vivi nient’altro che il pugno di sabbia di un ricordo, incancellabile come la più potente delle maledizioni.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

La mattina che si uccide anche l’ultima figlia dei Lisbon (stavolta toccava a Mary: sonniferi, come Therese) i due infermieri del pronto soccorso entrarono in casa sapendo con esattezza dove si trovavano il cassetto dei coltelli, il forno a gas e la trave del seminterrato a cui si poteva annodare una corda.

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