Recensione di “Il pane del ritorno” di Franca Cancogni
Per chi nasce ebreo è perversa fortuna avere un’unica misura della sofferenza. Per chi è figlio d’Israele alla sommità, così come alla base del proprio dolore, della propria deriva esistenziale, sembra non esserci altro che l’inumano sterminio della Shoah, l’Olocausto, il genocidio nazista. Per coloro che discendono da Abramo non pare possibile immaginare altra strada percorribile oltre quella che ha condotto milioni di persone ai cancelli dei campi di sterminio.
Un’unica misura, dunque. Una fortuna. O meglio, la maschera ignobile che indossa la tragedia quando in un mondo alla rovescia nel quale nulla è come dovrebbe essere perfino la peggiore delle sorti è qualcosa, una carta da giocare, in confronto al destino toccato a coloro che sono stati annientati. Ma non c’è e non può esserci una sola pietra di paragone, né un univoco metro di giudizio dell’umiliazione del torto e della sopraffazione, perché molteplici, molteplici al punto da essere infinite o quasi, sono le forme della persecuzione, e fiammeggiante la fantasia degli aguzzini, e creativa in modo quasi artistico la loro propensione alla ferocia, alla bestialità. Così, chi nasce ebreo, chi ha Israele nel sangue, può avere conosciuto l’atrocità del nazismo solo attraverso i libri e le testimonianze indirette, può avere saputo solo a cose fatte dei milioni di assassinati, e nonostante ciò raccontare con piena legittimità un’altra Odissea, narrare di altre angosce, disperarsi per altre morti, ricordare con rabbia impotente o amaro rimpianto separazioni forzate e miserie d’incubo, riassaporare nell’umido calore di lacrime silenziose brevi parentesi di felicità, improvvisi squarci di luce nella tenebra quasi uniforme di un’ostilità che non conosce riposo. Ed è esattamente questa la storia che racconta Franca Cancogni, sceneggiatrice e traduttrice, nel suo bellissimo e straziante romanzo d’esordio intitolato Il pane del ritorno (Bompiani), l’estenuante battaglia per la vita di una ragazza ebrea adottata poco più che bambina (assieme alla sorella) da un ricco mercante uzbeko e poi costretta dalla storia e dai suoi rivolgimenti a lasciarsi tutto alle spalle e ad andare profuga in Iran, Afghanistan e India prima di raggiungere la Palestina, terra contesa e tormentata, dove ad attendere la sua famiglia nel frattempo costituitasi tra mille difficoltà e patimenti, sono ancora una volta guerra, odio, inimicizia.
Nei panni dell’anziana Frida, ospite di una casa di riposo di Tel Aviv, Franca Cancogni lascia che sia la memoria a svelare ogni particolare, a trasmettere il calore tonificante di una quiete familiare nutrita dalla sincerità degli affetti e dal reciproco soccorso, a insinuare il gelo del dubbio, della paura, di un’estraneità sentita come insuperabile dal cuore ingenuo di un’orfana grata per tutto ciò che ha ricevuto ma terrorizzata al pensiero di non avere autentico diritto a niente, di dover dipendere, giorno dopo giorno, da una benevolenza che potrebbe svanire con la stessa repentinità con la quale si è manifestata e tradotta in realtà, e ancora a preparare, pagina dopo pagina, lo sgretolarsi di tutte le certezze, il mutarsi, quasi si trattasse di una maledizione, della ricchezza nel suo opposto, e infine il divenire, dalle persone che si era, o ci si era illusi di essere, uomini e donne senza volto né storia costretti alla clandestinità e alla fuga precipitosa.
In un continuo gioco di rimandi tra passato e presente, Franca Cancogni affida alla raffinatezza della sua scrittura la rappresentazione dello smarrimento di un’anima, ma nella cronaca di un naufragio che di continuo si rinnova, ecco che a trovare spazio sono le virtù della tenacia e del coraggio, e la capacità di sopportare le avversità più diverse, le familiari come quelle decretate dalla storia dei popoli, e l’acuta sensibilità, propria di chi ha conosciuto l’abisso, verso ogni forma di misericordia e in special modo nei riguardi di quella spirituale bellezza che è il tratto essenziale della natura umana (quando riesce a restare fedele a se stessa): “Era arrivata alla fine del suo racconto e con un sospiro si è guardata le mani come se le ricordassero tutta la fatica che quel lavoro le era costato. Aveva mani stranamente grosse e nodose per una vecchietta così esile e minuta. Poi ha guardato me. I suoi occhi erano chiarissimi, due pozze d’acqua trasparente. Chissà, ho pensato, se le vengono dagli avi arabi o dagli ebrei. E mi sono chiesta che cosa si provasse ad appartenere a una famiglia come la sua, a macchia di leopardo, un pezzetto di eredità da una parte, uno dall’altra. Ho anche pensato che forse dovremmo essere tutti così, impastati con farine diverse, insomma sangue misto, meticci. Forse allora finirebbero i contrasti, la voglia di sopraffarsi, le differenze. Forse finirebbero anche le guerre. Fra parentesi la panetteria Khalan esiste ancora […]. Quella che invece non esiste più è la Jaffa di allora […]. Della Sposa della Palestina, come la chiamavano una volta, non è rimasto nulla”.
Eccovi l’inizio del romanzo. Buona lettura.
Amol iz geven. C’erano una volta tre sorelle: la maggiore si chiamava Dinah, la seconda Abigail, ma io l’ho sempre chiamata Abbie, e la terza e ultima, che poi sarei io, Frida.