Recensione di “Il mondo deve sapere” di Michela Murgia
A un posto che potrebbe essere ovunque è legittimo dare un nome di fantasia, e se si tratta di un luogo di lavoro nel quale a dominare incontrastati non sono la sacralità del produrre né l’imperativo categorico del guadagno ma l’arte sottilissima della manipolazione psicologica e del raggiro affabulatorio (finalizzati entrambi, va da sé, da un a parte allo sfruttamento intensivo delle “risorse umane” – e le virgolette, quasi superfluo sottolinearlo, sono più che d’obbligo – e dall’altra al raggiungimento di vertiginosi picchi di vendita, e dunque in ultima analisi al successo economico, al già citato e famigerato guadagno, certo, ma ottenuto come?) allora la più spigliata creatività deve applicarsi non solo ai luoghi, ma anche a coloro che li popolano, e persino a ciò che fanno, alle cose di cui si occupano.
E così, eccoci a Paperopoli, base operativa di un “call center” (e qui le virgolette servono per sverniciare dall’elegante patina inglese la realtà dei fatti, che si rivela come un soffocante stanzone di uno scantinato dove anguste postazioni composte da sedia, minuscola scrivania, computer e telefono, il tutto con vista su un muro tappezzato di inflessibili parole d’ordine su cosa è doveroso dire “quando si sta lavorando” e soprattutto su cosa è assolutamente necessario evitare di dire “mentre si è impegnati a svolgere la propria occupazione” esauriscono l’arredamento) guidato con mano fermissima e lungimiranza da navigato statista dall’immancabile “padrone della baracca”, un amministratore delegato che potrebbe chiamarsi solo e soltanto BillGheiz (e infatti così si chiama) e da un braccio destro donna campionessa mondiale di carriera che risponde all’epiteto poco lusinghiero ma assai chiarificatore (in termini di qualità umana e scaltrezza professionale) di Hermann. Paperopoli, il luogo, BillGheiz, il capo, Hermann, il suo vice responsabile dell’operatività, e infine Camilla, la voce narrante, una delle tante ragazze chiamate a fare “il lavoro più bello del mondo”; piazzare il rivoluzionario aspirapolvere (ma il termine è riduttivo per un elettrodomestico capace di fare tutto, ma davvero tutto; così tanto avveniristico e indispensabile che non si capisce come sia stato possibile arrivare fino alla modernità presente senza averlo avuto al proprio fianco, né come riesca, oggi, il popolo intero a non pretenderlo come diritto inalienabile) Kirby, meraviglia partorita dalla genialità ingegneristica a stelle e strisce. È su questo palcoscenico (che in realtà è il ring di un sanguinoso incontro di pugilato esistenziale, dove a vincere è sempre e solo l’“imprenditore” – le virgolette restano indispensabili, non dimentichiamolo mai – e a lasciarci corpo, anima e dignità sono le telefoniste, ragazze che, spesso senza accorgersene, barattano se stesse per molto meno di un piatto di lenticchie, cioè per circa 200 euro mensili) che Michela Murgia, raccontando un’esperienza personale, e cioè utilizzando, come lei stessa dichiara, “la scrittura come mezzo per reagire a qualcosa contro il quale nessun’altra reazione sembrava possibile”, ambienta il suo Il mondo deve sapere, blog tanto comico e brillante da essere tragico nella sua scandalosa verità, divenuto romanzo (pubblicato da Einaudi), e rappresentazione teatrale, e film, e, non ultimo, strumento di riscatto ed emancipazione dell’autrice.
Il riso, si sa, è una porta spalancata sul dramma, e Michela Murgia sembra non fare alcuna fatica a solleticare nel lettore, conquistato dalle sue cronache ai confini della realtà (ai confini? Questa è la realtà, la sola con cui centinaia, migliaia di persone si trovano a fare i conti; magari l’assurdità delle situazioni descritte, la loro intollerabilità, fosse l’eccezione e non la regola, allora forse potremmo permetterci di sperare, tra una chiamata e l’altra, tra un appuntamento estorto e un “sì, va bene” ottenuto nel modo in cui si strappa un’elemosina, per sfinimento, o per meccanica obbedienza delle cose alla legge dei grandi numeri, che una qualche via d’uscita esista), i centri nevralgici del buonumore, ma è quel che resta dopo il compiacimento a dare sostanza narrativa alle sue pagine, al suo blog-romanzo-film che non è, e non vuole essere, soltanto denuncia. Murgia, infatti, individua un sistema che va al di là della specifica vendita di cui narra, ed è sviscerandolo dall’interno, smascherandone i meccanismi di funzionamento, che giunge alla meta, e cioè nel cuore di tenebra di una giungla (terreno ancora vergine per tanti, troppi di noi) fatta di rapporti di forza squilibrati, figli di diritti negati giorno dopo giorno, con sistematica volontà distruttrice, di un’idea di lavoro dalla quale è stato estirpato ogni concetto di dignità, ogni richiamo all’etica, di un modello di persona a tal punto derubata della propria coscienza da poter essere convinta senza eccessiva difficoltà che il male è bene, l’ingiusto giusto e il torto ragione, a patto che si riesca a trovare la formula adatta per dirlo.
Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.
Deh, direbbe Silvia. Ho iniziato a lavorare in un call center. Quei lavori disperati che ti vergogni di dire agli amici. «Cosa fai?». E tu: «Be’, mi occupo di promozione pubblicitaria». Che meraviglia l’italiano, altro che giochi di prestigio.