Recensione di “Affetti collaterali” di Eleonora Molisani
Come una messa a fuoco impossibile, come un’incolmabile divaricazione, come la distanza allo stesso tempo illusoria e terribilmente reale che separa lo sguardo dal miraggio che occhi colmi di desiderio e disperazione hanno creato.
E ancora come una particolare forma di cecità, un cortocircuito dell’anima e dei sensi che nasconde la realtà, la sua presenza, il suo incessante manifestarsi per sostituirla con un’immaginazione battezzata nel rimpianto, con una fantasia ubriaca di rancore, con silenzi ingombri di tutte le parole che non sono state dette quando era il momento giusto per pronunciarle e che ora si consumano nell’urlo strozzato di rivendicazioni espresse solo in parte, di minacce abortite, di vendette pianificate in ogni dettaglio e poi messe da parte, nell’inconfessata speranza di non doversene servire mai. Così è il labirinto di esistenze perdute che Eleonora Molisani disegna nel suo secondo, intenso romanzo intitolato Affetti collaterali (Giraldi Editore). Se nel suo lavoro d’esordio, la raccolta di racconti Il buco che ho nel cuore ha la tua forma (nel caso vi interessasse la recensione, la trovate qui), la giornalista e scrittrice milanese guardava alle derive, ai naufragi, al deragliare che ognuno di noi, spesso senza accorgersene, sfiora ogni giorno della sua vita, e raccontava con implacabile durezza d’accenti l’umana tragedia dell’assenza di pietà, in questa sua nuova fatica esplora, con una radicalità e un coraggio che suscitano ammirazione e lasciano storditi, l’ombra di infelicità e disordine che uomini e donne portano con sé, quasi fosse il fardello d’Atlante, non tanto per la responsabilità di aver fatto scelte sbagliate, ma per una sorta di essenziale incapacità di comprendere la propria natura e di dare a essa voce e dignità.
Gli uomini mentono troppo, sosteneva Louis-Ferdinand Céline, a parere di chi scrive il più grande autore del Novecento. E prima di tutto lo fanno a se stessi, sembra aggiungere Eleonora Molisani narrando il sofferente incespicare dei suoi personaggi, persone comuni, come tanti di noi, probabilmente come ciascuno di noi, identificati però non da un vero e proprio nome di battesimo, ma da un colore, o meglio da una sua sfumatura (Scura, Grigio, Nero, Blanca), a sottolineare la loro incompiutezza, il loro esistere in forma di abbozzo, burattini ancora mancanti di qualche sostanziale dettaglio, e per questo inadatti a farsi di carne e sangue, a entrare nella vita. E così, ecco che il loro essere, letteralmente, “personaggi in cerca della propria autenticità” riverbera nell’insoddisfazione (a tratti latente, a tratti fin troppo manifesta) dei loro giorni, sempre consumati e mai davvero vissuti, contemplati tra lacrime e sospiri come monchi trampolini di lancio verso un’alterità che ha la consistenza crudele del peggiore dei sogni, quello che si fa a occhi aperti.
Testimone di tutto questo, immensa scacchiera sulla quale si gioca il destino di un pugno di persone trascinate loro malgrado verso l’abisso, è una Milano quasi trasparente, una città fatta di respiri, che Eleonora Molisani descrive, al principio del romanzo, con travolgente trasporto e splendida grazia: “[…] Abbracciami di guglie e grattacieli, timide case grigie, inaccessibili corti, asfalto nero, cieli scarabocchiati e nudi. Milano algida e inquieta, puntellata di antenne non rondini, il respiro affannato nell’afa di biossido, fissa, nell’ovatta del vuoto e della non presenza”. Qui, lungo strade, slarghi, piazze, e più ancora nei chiaroscuri delle case, degli appartamenti, nella dignitosa povertà di locali e arredi strappati a cambiali e mutui come nell’eleganza perfetta e fredda di ambienti in cui tutto è esattamente come dovrebbe essere ma nulla è abbastanza autentico da rappresentare qualcosa o qualcuno, da profumare di verità, la non presenza è una malattia, uno spettro, una maledizione. Qualcosa che forse non si sceglie, uno scherzo del destino in cui si inciampa, un baratro nel quale si finisce per caso, come per caso accade di ammalarsi, o magari di morire, ma è anche la forma di tutto ciò che mette paura, è la misura della nostra vigliaccheria, è ciò che ci fa girare la testa dall’altra parte quando tutto il nostro essere non domanda che una cosa: alzare gli occhi, spalancarli alla luce, accettarla nella sua violentissima nudità.
Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.
Milano, ti ascolto parlare, scrigno silenzioso. Madre severa, memore di gravidanze isteriche, parti indesiderati, carezze straniere.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.