Recensione di “Jubiabà” di Jorge Amado
“Il vecchio si è svegliato. Trema dal freddo. È tornato il vento che annuncia il temporale. Avvolge e circonda il treno che oscilla sulle rotaie […]. – I poveracci devono soffrire. Certi nascono per godere: e sono i ricchi. Gli altri per soffrire: e sono i poveri. È così fin da quando esiste il mondo […]. Il povero è così infelice che quando la merda sarà denaro, il culo del povero non cacherà più…”. È con queste parole che un uomo ormai vicino alla morte, viaggiatore clandestino su un treno diretto a Bahia, si arrende alla propria sorte, che è la sorte di tutti coloro che sono venuti al mondo in povertà, dei neri del Brasile, dei neri della bellissima e terribile città di Bahia, luogo di santità e perdizione, libertà e schiavitù, prostituzione e religiosità, spiritualismo e carnalità, terra che ha la saggezza antica di generazioni e che trattiene in sé il dolore delle madri e dei figli, le cui lacrime, i cui singhiozzi, sono nutrimento per il suo ventre muto e fecondo, che senza sosta, obbediente all’imperativo della natura, germoglia. E queste parole, accolte con un misto di allegria e scetticismo, ascolta Antonio Balduino, giovane, forte e ribelle ragazzo nero di Bahia, cresciuto amando più di altra cosa la libertà e la vita di strada, attratto dalla nobile grandezza dei fuorilegge, dall’orgoglio dei cangaceiros, i leggendari banditi del sertão basiliano, e, non ultimo, conquistato dalla profonda sapienza del santone e stregone Jubiabà, capace tanto di chiamare a sé, nelle notti di macumba, le divinità che distanti guardano le piccole e meschine vite degli uomini, quanto di lanciare potentissime fatture amorose in grado di legare per sempre le coppie, o di restituire all’amante tradita e abbandonata il compagno fuggito. Mendicante, imbattibile pugile, artista circense, compositore di samba e canzoni eroiche, e ancora lavoratore di fatica nelle piantagioni di tabacco, amatore instancabile (e insieme innamorato fedele dell’unica donna desiderata fin da bambino e mai conquistata, la bianca, virginale Lindinalva) e molto altro ancora, Antonio Balduino, da tutti conosciuto come Baldo, è il canagliesco, irresistibile protagonista di Jubiabà, tenero e tragico romanzo di formazione d’avventura di Jorge Amado.
Osservato, e in qualche misura anche protetto, dalla saggia figura dell’anziano sacerdote – il cui unico credo sono i poveri e i derelitti tra i quali vive – che dà il titolo al romanzo, Antonio Balduino fatica a saziare la propria feroce brama di vita; egli cerca ovunque la spensieratezza, ma capisce ben presto che la gioia, per quanto possa essere semplice da trovare, è un tesoro difficile da conservare in mezzo a miseria e stenti, tra bimbi che muoiono di fame, madri vinte da lavori massacranti e salari da fame e padri ridotti all’ombra di se stessi che fuggono dall’atrocità della loro condizione abbandonandosi allo stordimento dell’acquavite; così, dopo aver sognato di conquistare la città a capo di una banda di mocciosi impegnati da mattina a sera a chiedere l’elemosina o a estorcere denaro a qualche malcapitato passante circondato nel bel mezzo di una strada vuota, Antonio Balduino sceglie il mare e parte, ma anche lontano dall’amata Bahia a inseguirlo, tenace, è la dura infelicità del suo prossimo.
Antonio fatica a capire perché il mondo sia così, perché debba essere sofferenza e non il suo opposto, né si spiega per quale ragione Jubiabà, per il quale l’intero universo non ha segreti, non gli abbia mai parlato di queste cose, non l’abbia mai illuminato; questo suo smarrimento, tuttavia, è destinato a scomparire, perché la coscienza di sé e della realtà in cui vive, in cui esiste e lotta assieme a tanti altri poveri come lui, giungerà spinta dal peggiore dei drammi, quello che tocca a Lindinalva, la donna amata in silenzio per tanti anni. Quando Baldo la rivede, lei è in punto di morte; la sua discesa agli inferi è stata terribile e inaspettata, e ora quella donna che sta per lasciare questa terra ha un figlio, un figlio che affida al negro perdigiorno Balduino. Divenuto padre, Baldo comincia a lavorare; divide il misero pane e gli immani sforzi con uomini e donne che per lungo tempo ha disprezzato chiamandoli schiavi finché non ne conosce l’eroismo nel momento in cui dichiarano uno sciopero generale; vogliono condizioni migliori, salari migliori, e si rimetteranno al lavoro solo quando li avranno ottenuti entrambi. In questa battaglia, che non è ardimento di bandito, che non è rissa da strada combattuta a pugni e coltelli, Baldo poco alla volta scopre dignità, e valore, e pure scintille d’umanità; qui, in mezzo a uomini che al pari di lui sono padri, che come lui amano e sperano, egli giunge alla fine del suo viaggio, a quell’approdo ultimo che non credeva esistesse e che invece altro non è che se stesso.
Eccovi l’inizio del romanzo. La traduzione, per Einaudi, è di Dario Puccini ed Elio Califano. Buona lettura.
La folla balzò in piedi come un sol uomo. E rimase in religioso silenzio. L’arbitro scandì: – Sei…
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.