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Elisabetta e la donna di carta

Recensione di “La vergine nel giardino” di Antonia S. Byatt

Antonia S. Byatt, Il vergine nel giardino, Einaudi

Vivere nei libri, attraverso essi, tradursi in parole scritte, in versi, in dotte discussioni sullo stile, sulla grandezza, sul significato della letteratura e sul suo tradimento, incarnarsi nella prosa, vestirsi di stile, agghindarsi con i versi e la poesia, urlare con la tragedia, sogghignare aiutati dalla leggerezza della commedia, esistere interpretando, vagliando, analizzando, studiando, mentre il mondo, ignorato, si va vecchio.

Vivere come esseri di carta, non di carne e sangue, convincersi che ogni verità davvero degna di questo nome dimori nelle pagine e non fuori di esse, costruire un incantesimo, cercare di proteggersi in qualche modo dall’urto del reale e nonostante ciò finire travolti da tutto ciò che semplicemente è: dall’amore, dall’ambizione, dalla paura, dal desiderio di scoprire, conoscere, fare proprio quel che palpita oltre le colonne d’Ercole dell’alfabeto e delle sue possibilità. Qui, in una tensione continua tra idealità e concretezza, in un non luogo che è spirito, immaginazione, intuizione, intelligenza, terrore e follia, Antonia S. Byatt mette alla prova il suo talento di narratrice dando vita a La vergine nel giardino, primo capitolo di una quadrilogia ma soprattutto romanzo ricchissimo, così tanto da rischiare di essere soffocante, volutamente sovraccarico, ricercato fino all’eccesso nel linguaggio, condotto al di là di sé nell’ossessivo inseguire la perfezione stilistica, trasfigurato nel disegno dei personaggi, che paiono quasi irreali, che si muovono su uno sfondo menzognero (o se si vuole semplicemente truccato) – quello di una rappresentazione teatrale la cui protagonista è Elisabetta I – come marionette, versioni accademicamente letterarie di persone vere, autentiche, comuni.

Ambiziosissimo e dirompente, questo lavoro della Byatt si muove lungo la linea sottilissima della contraddizione, dell’impossibile ricomposizione degli opposti; la distanza tra ciò che i libri ci consegnano come definitivo e la precarietà, l’incertezza e l’ignoto che caratterizzano l’ordinario tempo del vivere di tutti (che fa irruzione, in tutta la sua dirompente urgenza, con la nascente tirannia della televisione e l’Incoronazione, il 2 giugno 1953, di Elisabetta II) è la materia prima di cui sono fatti protagonisti e comprimari della sua storia: la famiglia Potter innanzitutto, e all’interno di essa le due sorelle Stephanie e Frederica, e il terzo figlio Marcus, fragile e tormentatissimo, terrorizzato da fenomeni percettivi e ottici straordinari che non riesce in alcun modo a padroneggiare, tutti in qualche misura ostaggio del dispotismo del loro padre Bill e della silenziosa arrendevolezza della madre Winifred; il vicario Daniel Orton, che si innamora, riamato (per quanto confusamente, disordinatamente), di Stephanie e riesce a sposarla nonostante la violenta opposizione di Bill, ateo e irriducibile avversario della Chiesa e di quel che rappresenta, il drammaturgo Alexander Wedderburn, la cui opera è quella che viene messa in scena nel bucolico scenario del college di una cittadina inglese di provincia; Lucas Simmonds, professore ed “esploratore” dell’ignoto, dei misteri dell’inconscio, instancabile “cacciatore di energie”, di quelle forze immateriali che non solo mettono in comunicazione spirito e materia ma ne consentono la compenetrazione, che coinvolge Marcus in una serie di esperimenti tanto arditi quanto pericolosi, e ancora la teoria di attori dilettanti e professionisti chiamati a prendere parte alla rappresentazione, che, vera e propria ordalia, scioglierà, seppur senza alcun ordine e raziocinio, i numerosi nodi intrecciati nel corso della narrazione.

Allo stesso tempo sogno e incubo di mezza estate (Shakespeare, insieme a Lawrence, Milton e Racine è tra gli autori più citati nel romanzo), La vergine nel giardino è un artificio e il suo contrario, un fluire di avventure e un romanzo di formazione, un azzardo che sembra sempre sul punto di sfuggire alla sua creatrice e un viaggio indimenticabile e perfetto nei reami gemelli del reale e del fantastico; è il labirinto costruito per rinchiudere il Minotauro e il filo d’Arianna che conduce all’uscita e alla salvezza; è un salto nel vuoto e un piano organizzato fin nei minimi dettagli; è la cacofonia di suoni di un mercato, di una piazza, di un litigio scoppiato per strada e la sublime armonia delle sfere celesti.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Einaudi, è di Anna Nadotti e Giovanna Iorio Bates. Buona lettura.

Frederica lo aveva invitato, chissà se d’impulso o per maliziosa premeditazione, alla National Portrait Gallery per vedere Flora Robson nei panni della regina Elisabetta. 

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