Recensione di “Germinale” di Émile Zola
Singolo, famiglia, popolo. Pietosa e laica Trinità dell’esistere quotidiano, la cui Passione è la fatica bestiale del lavoro, sono fame e stenti, è la fatalistica rassegnazione che grava sul capo di chi, dalla nascita, ha imparato soltanto a chinarlo, a dire “sì signore”, ad accettare, è l’ossessione della carne, solo piacere (almeno in apparenza) non avvelenato dalla ricattatoria mediazione del denaro, sempre insufficiente, e insieme eterno ritorno della schiavitù, della miseria, dell’impotenza, rinnovarsi di quella suprema ingiustizia che è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Singolo, famiglia, popolo. Laica e pietosa Trinità del dolore e della morte che può giungere improvvisa, prematura, conseguenza tra le tante di un impiego che è disumana fatica, che spoglia uomini e donne di ogni possibile dignità per vestirli solo di sorda resistenza e meccanico agire. Singolo, famiglia, popolo. Trinità dannata cui più nulla è rimasto di santo, e che derubata e afflitta si avvia all’alba lungo la strada di una Via Crucis che ha l’amaro sapore dell’unica eternità conosciuta dai mortali: quella che si conclude con lo sfinimento della vecchiaia, con l’ultimo respiro esalato. Di questa Trinità così insopportabilmente umana racconta con indimenticabili accenti Émile Zola nel suo meraviglioso e terribile Germinale (1885), cronaca naturalista e insieme fiammeggiante architettura letteraria centrata sulle spaventose condizioni sopportate dai minatori – chiamati a estrarre carbone dalle viscere della terra – di un distretto industriale nel nord della Francia. Singolo è l’indiscusso protagonista dell’opera, il giovane Stefano Lantier, che in mezzo a quel derelitto esercito del sottosuolo finisce quasi per caso ma i cui bisogni, le cui rivendicazioni, finisce ben presto per sposare, trascinato e poi travolto dal suo idealismo generoso e ingenuo, ma singoli sono anche tutti coloro accanto ai quali Lantier vive: la bella Caterina che egli ama fin dal primo incontro, il rude Cheval, compagno di Stefano nella fatica quotidiana, fratello addirittura nella inaccettabile degradazione del lavoro, e nonostante ciò confinato dalla bruciante gelosia che lo consuma nell’odioso ruolo di avversario, di rivale acerrimo; l’anarchico Souveraine, convinto che nulla possa cambiare l’intollerabile ordine delle cose che vede la borghesia dominare e il popolo minuto soccombere se non un’universale sollevazione armata che precipiti il mondo così come lo si conosce nel sangue e nella morte e in quella crudele fonte battesimale gli consenta di rinasce in forma finalmente rinnovata e monda; l’infelice Hennebeau, direttore della miniera, l’uomo più invidiato dagli operai per il suo potere e la sua ricchezza e che pure, imprigionato in un matrimonio infelice, ferito dai continui tradimenti della consorte, chiuso in un rancoroso, tragico silenzio, guarda a quegli uomini sempre in pericolo di morire di fame con invidia; non esiterebbe un istante, il ricco Hennebau, a scendere nelle viscere della terra, a divenire lui stesso l’ultimo degli ultimi se in cambio di tutto ciò potesse avere quel che gli uomini alle sue dipendenze posseggono senza neppure fare mostra di accorgersene: la felicità perfetta data dalla libertà d’amare e di essere riamati, il dono dei figli, un casa cui tornare, certo vuota di beni ma colma di persone, d’occhi, respiri, parole, abbracci.
E famiglia è la povera ma dignitosa casa Maheu, che accoglie Lantier per calcolo ma anche con sincera benevolenza e che a questo ragazzo e ai suoi sogni di un domani equo, che dia a ciascuno secondo i propri meriti, spalanca non solo le proprie misere stanze ma anche i cuori, le anime; e con essa e all’opposto di essa è famiglia villa Grégoire, avvolta nella calda coperta di una stolida incoscienza: padre, madre e figlia amatissima la cui fortuna, inattaccabile, si deve a una partecipazione azionaria proprio in quella miniera che senza sosta svuota e distrugge le vite di coloro che inghiotte. E popolo, infine – creatura acefala, informe e inarrestabile, guidata solo dalle emozioni più estreme, incapace di mediazione, pronta a qualsiasi gesto, a qualsiasi azione, a ogni eccesso in nome di un bisogno, di una parola d’ordine, di un capriccio in un istante elevato a suprema verità e l’istante successivo, a scempio consumato, ridotto a motivo d’imbarazzo, o peggio di vergogna – sono i minatori tutti, che all’indomani nell’ennesima prepotenza consumata ai loro danni da parte della Compagnia proprietaria della miniera nelle cui cavernose prigioni essi languono per ore e ore tutti i giorni, decidono dapprima di scioperare, poi di ribellarsi apertamente e di prendersi con la forza quel pane che i ricchi si ostinano a negargli.
Splendido, indimenticabile caposaldo del romanzo sociale, Germinale è un capolavoro perfetto: lo è letterariamente (e sotto questo aspetto una note di merito va alla scintillante traduzione italiana di Camillo Sbarbaro per Mondadori), lo è per l’approfondimento psicologico dei caratteri, per le lucide riflessioni sulla massa e sulla sua manipolazione, e lo è, infine, per il suo spregiudicato interrogarsi sulla giustizia, meta che gli uomini possono forse avvicinare, ma mai raggiungere davvero.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
In mezzo all’aperta pianura, sotto un cielo senza stelle, nero d’un nero d’inchiostro, un uomo percorreva, solo, la strada maestra tra Marchiennes e Montsou; dieci chilometri di massicciata che si lanciava in linea retta attraverso campi di barbabietole.