Recensione di “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo
“A sentire Alberto Savinio, «uno dei probabili etimi di Mare, e proposto come tale da Curtius, è il sanscrito Maru, che significa deserto e propriamente cosa morta, dalla radica Mar, morire». Ebbene, ambientato in un piccolo paese della riva siciliana dello Stretto di Messina, Horcynus Orca è un romanzo di morte e di mare che si chiude sopra il deserto dei valori di un mondo travolto dalla guerra […]. Epica e religione?
Epica sì: c’è ogni genere di letteratura in Horcynus Orca (dalla favola alla satira menippea, dal teatro alla narrativa lirica, la comicità e la tragedia, o i linguaggi bassi che ravvivano il sublime della popolare Opera dei Pupi). In quanto alla religione, c’è soprattutto quella laica dell’arte. Oppure quella pagana dei poveri pescatori che chiedono a ogni dio del mare di mandare molti pescispada e di tener lontani i delfini, o fere. Così li chiamano loro, che ci combattono quotidianamente come gli eroi di Ariosto in guerra con gli infedeli […]. L’opera di Stefano D’Arrigo, se per allegoria è il romanzo della fine del mondo, nella realtà racconta la fine del mondo in cui da millenni si sono avvicendati sullo Stretto di Messina i pescatori. Privi di scrittura, con parole povere quanto il loro cibo (il pescespada lo pescano ma non lo mangiano quasi mai, troppo lusso, troppo caro), essi comunicano anche ciò che il dialetto calabro-siculo non sa dire con precisione e che il narratore non può né intende dire naturalisticamente […]. Questo romanzo parla sempre di quanto vedi (il suo realismo, il suo nuovo realismo) e di quanto stravedi (il suo simbolismo, il suo ermetismo, il suo neoespressionismo). O più precisamente, il dato naturale è insieme metaforico: quanto può esserlo un tratto di mare stretto fra due sponde che, riempiendosi di corpi esanimi di marinai morti in guerra, può sembrare un fiume come l’Acheronte […]. Il romanzo di D’Arrigo possiede la solidità di chi racconta fatti veri, il funambolismo linguistico di chi fa acrobazie ignaro di quando e dove toccherà terra, la fantasia di un visionario che allunga le mani su un sogno che crede realtà […]. Romanzo globale, Horcynus Orca contiene ogni modo di narrare e di descrivere, di dialogare e di farsi musica. C’è la figuratività che dà rilievo ai personaggi e c’è il materico nel quale insegui quello di cui ignori il volto e il senso. C’è la comicità nei suoi vari gradi…. E ci si può commuovere più per la morte di due delfini che non per quella degli uomini […]. Ogni giorno ci sarà la fine del mondo e ogni giorno dovremo trovare il linguaggio nuovo in virtù del quale ottenere il rinvio della condanna. Horcynus Orca in affetti ha un linguaggio inaudito. Può anche sembrare talvolta sterile, autoreferenziale, manieristico ma, visto dal mare di D’Arrigo, ora il mondo è diverso. Il Sud? Non solo: questo romanzo dà nuova luce e musica a tutti i punti cardinali”.
Nelle parole di Walter Pedullà che introducono il capolavoro di Stefano D’Arrigo a emergere è la centralità assoluta del linguaggio, l’invenzione della parola che trova un proprio inconfondibile respiro, una sua voce diversa da ogni altra, che fiorisce nella cosa detta e che, nel momento in cui la dice, la pronuncia, compie l’atto stesso della creazione, dispensando vita laddove racconta la vita e morte allorquando di morte si accinge a narrare. Nella storia di un uomo solo, del marinaio ‘Ndria Cambrìa, che come molti altri soldati nelle settimane successive allo stravolgimento dell’8 settembre 1943 abbandona la guerra e la sua insensatezza e si accinge a tornare a casa, alla vita che era stato costretto a lasciare, lo scrittore italiano guarda sia alla storia, al dramma del secondo conflitto mondiale e, all’interno di esso, alla tragedia italiana (che lui muta in tragicommedia, in sanguinosa farsa) incarnata dalla dittatura fascista, sia alla dimensione atemporale (eterna se si vuole) dell’esistere di uomini e cose, a quell’inesplicabile equilibrio del tutto che si regge sulla sofferenza e sull’amore, sul sacrificio e sulla tenacia, sulla dignità difesa a ogni costo, sull’eroismo silenzioso e autentico di coloro che sanno di essere venuti al mondo sconfitti ma non per questo rinunciano a se stessi.
Nei disegni di un arazzo splendido e labirintico tessuto per quasi 1.300 pagine D’Arrigo non offre risposte, non dona verità, non concede tregue; tutto quel che fa è scrutare il mistero dell’essere umano, dell’essere vivo, del nascere e del morire, dipingere un mondo prossimo al tramonto definitivo. Si schiera, certo (il suo antifascismo è trasparente, addirittura brutale, feroce pur nella trasfigurazione ironica, satirica, beffarda), ma solo dove gli è possibile, dice la sua sul qui e ora, lascia ad alcuni dei suoi personaggi (Ciccina Circè su tutti) il giudizio sulla guerra, ma di fronte all’assoluto sceglie il silenzio. La lingua, che ha reinventato, trasformato in creatore e creatura, cui ha dato il potere di dire l’indicibile, condotta dalla vita fin sulla soglia del suo opposto, dinanzi alla morte si ferma, tace. Senza arrendersi, proprio come mai si è arreso il giovane ‘Ndria, guarda dietro sé, alla strada percorsa, al viaggio compiuto per ritrovare la propria casa, la propria origine. L’origine di tutto.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio nocchiero semplice della fu regia Marina ‘Ndria Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi.