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Il bianco e il nero

Recensione di “Terra di sangue” di Karin Brynard

Karin Brynard, Terra di sangue, E/O

Sudafrica. Huilwater è una delle tante fattorie ancora in mano alla popolazione bianca. L’apartheid, l’odiosa politica di segregazione razziale praticata ai danni della maggioranza nera del Paese è ormai una pagina di storia, ma le sue ferite, i suoi traumi, la scia di odio e la sete implacabile di vendetta che ha lasciato dietro di sé è ben più di una presenza, ben più di una minaccia, nelle città, nelle campagne, tra la gente.


Così, sconvolge, agghiaccia, ma non sorprende (non del tutto, almeno) un duplice omicidio (l’ennesimo) compiuto in una fattoria non lontana dall’arido splendore del deserto: una donna bianca, un’artista, una pittrice di talento conosciuta e amata e la sua giovanissima figlia adottiva, assassinate in maniera brutale, terrificante, umiliate dalla mano che ha tolto loro la vita, oscenamente messe in posa come fossero elementi di una raccapricciante “messa in scena”. Si apre così, con la nudità feroce della morte, Terra di sangue, il serrato, travolgente thriller di Karin Brynard, in Italia pubblicato dall’editore E/O nella traduzione (dall’inglese, in origine il romanzo è stato scritto in afrikaans) di Silvia Montis. Protagonista indiscusso del romanzo è l’ispettore (bianco) Albertus Markus Beeslaar, la cui rappresentazione, pur non risparmiando ai lettori qualche cliché di troppo (come per esempio l’immancabile dolorosissimo passato, che causa al solerte e coraggioso poliziotto incubi e devastanti attacchi di panico), restituisce un personaggio credibile, complesso, le cui contraddizioni non hanno nulla di artificioso, senza dubbio intelligente ma per fortuna privo di quel genio infallibile e irritante (proprio per la sua intrinseca perfezione) che è caratteristica quasi universale degli investigatori letterari (specie se dilettanti). E forse proprio perché non si esercita a risolvere casi per fuggire la noia ma per la ben più prosaica ragione che viene pagato per farlo, Beeslaar al proprio arco non ha che le frecce che può vantare un qualsiasi coscienzioso lavoratore: serietà, tenacia, volontà, un rigoroso metodo di indagine e uno spiccato senso della giustizia.

Ed è soltanto con queste armi, e un paio di aiutanti non proprio impeccabili, che l’ispettore deve cercare di fare luce sull’omicidio della povera Freddie (così si chiamava l’artista) e della bambina che aveva preso con sé, mentre intorno a lui, e alla comunità nella quale vive, si moltiplicano gli episodi di violenza: gli assalti alle fattorie in primo luogo, che fanno sentire la comunità bianca sempre più assediata e impotente, vittima di un Paese su cui fino a non molti anni addietro signoreggiava e che oggi sembra tenerla in ostaggio e giocare con lei come il gatto con il topo, poi gli affari opachi delle speculazioni edilizie e dello sfruttamento di alcune aree, infine i continui furti di bestiame, opera con ogni probabilità di una banda organizzatissima (e che gode di importanti appoggi, non solo logistici), che spesso si concludono con degli omicidi. Brynard racconta tutto ciò con una prosa limpida ed elegante, senza dimenticare la tormentata storia della terra sudafricana, indispensabile se non per spiegare quel che accade di sicuro per inquadrarlo nel giusto contesto e per capirne, in qualche misura, le ragioni, non importa quanto contorte siano. Ed ecco che nel bel mezzo della lettura di un giallo, nel pieno di un’investigazione nel corso della quale si susseguono colpi di scena e sorprese, nell’affanno di una caccia all’uomo che non conosce tregua e in cui tutti sono sospettati, affiorano gli spettri del razzismo, le asprezze di un confronto politico che si è sempre consumato nel segno della violenza e che oggi ancor più sembra cercare sfogo e soddisfazione nello spietato principio della legge del taglione e le universali ombre della brama di potere, demone dinanzi al quale ogni cosa sembra essere sacrificabile. E ovunque la vastità sublime e terribile della natura, muta, impotente e dominata eppure immortale dinanzi alla miseria dell’uomo, il cui immutabile destino è morire.

Terra di sangue è senza dubbio un buon romanzo; ambizioso, ben scritto, ricco di suggestioni, in più di un momento evocativo. Non un libro indimenticabile e senz’altro non un capolavoro, ma una lettura capace di avvincere e che mantiene alta la tensione per oltre 500 pagine.

Eccovi l’incipit.

La telefonata arrivò poco dopo le due. Era seduto alla scrivania della stazione di polizia, alle prese col suo pranzo a base di vetkoek e carne macinata. 

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