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Il vasto territorio dell’antiromanzo

Recensione di “La donna del tenente francese” di John Fowles

John Fowles, La donna del tenente francese, Mondadori

Inghilterra, 1867, una storia d’amore. In estrema sintesi, La donna del tenente francese, uno dei più noti romanzi di John Fowles, pubblicato nel 1969, è tutto qui. Uno straripare di sentimenti, un acuto dramma passionale che si consuma in un’età che tutti crediamo di conoscere, quella vittoriana, nella quale a prevalere sui moti del cuore sono la rigorosa obbedienza al dovere e il supino, militaresco ossequio alle convenzioni sociali.


Ma è davvero questo l’Ottocento inglese? Non è piuttosto qualcosa di assai diverso da ciò che siamo soliti figurarci, per esempio “un’epoca nella quale la donna era sacra [ma] si poteva comprare una ragazza di tredici anni per poche sterline, o pochi scellini se la si voleva soltanto per un’ora o due?”. Era davvero pudicizia estrema nelle forme, nei discorsi e nella condotta l’Ottocento di Sua Maestà Vittoria e non invece un’età “nella quale si costruirono più chiese che in tutta la precedente storia del paese [mentre] a Londra una casa su due era un bordello?”. Siamo certi fosse la stagione delle virtù vissute, incarnate, sposate e non una lunga, contraddittoria e scomposta parentesi nel corso della quale “la santità del matrimonio (e della castità prematrimoniale) era esaltata da ogni pulpito, in tutti gli editoriali e nei pubblici comizi [e nello stesso tempo quella in cui i] grandi personaggi pubblici – dal futuro re in giù – conducevano una vita assolutamente scandalosa?”. E ancora quella che vide “gradatamente umanizzato il sistema penale [ma dove tuttavia] la flagellazione era talmente diffusa che un francese cercò seriamente di dimostrare che il marchese De Sade dove essere d’origine inglese?”. E dove, se ancora non bastasse, “il corpo femminile era più che mai celato a occhi indiscreti, e i meriti degli scultori erano valutati in base alla loro capacità di scolpire donne nude?”. Nel chiedersi – e soprattutto nel chiedere retoricamente al lettore tutto questo, superata ormai la metà del romanzo e a vicenda quasi del tutto raccontata – John Fowles chiude il cerchio di un’opera non comune per fascino e originalità, nella quale il rispetto delle regole del romanzo (e all’interno di esso, quale specie di un genere, del prodotto letterario vittoriano inglese, di cui sono impeccabile espressione la puntualità della ricostruzione d’ambiente e la precisione del disegno dei personaggi, dai protagonisti fino alle comparse) si fonde con una studiata decostruzione dell’idea stessa di vicenda narrata.

Fowles, infatti, fa a pezzi quella che è l’architrave di ogni storia che non intenda essere cronaca: l’illusione scenica, dunque la possibilità di credere che quel che si sta svolgendo sotto i nostri occhi possa essere accaduto, o in qualche modo succedere, e che proprio per questa ragione si riesca, sia pur imperfettamente, a vederci riflessi (e perché no, perfino compresi, spiegati) negli uomini e nelle donne le cui azioni e i cui pensieri conosciamo pagina dopo pagina. Ma la sospensione dell’incredulità non è argomento che interessi Fowles; non importa, allo scrittore inglese, percorrere la via maestra santificata dalla storia e così conquistare i lettori, poiché egli del romanzo preferisce mettere in luce il carattere “antiromanzesco”. Così, come un burattinaio che scelga, in luogo di un palcoscenico perfettamente costruito dove ogni mano umana sia debitamente nascosta e dove i fili rimangano invisibili, uno spazio spoglio che indichi tanto i pupazzi quanto colui che li manovra e che dia voce sia all’uno sia agli altri, John Fowles non perde occasione per guardare alla vicenda messa in prosa dal luogo e soprattutto dal tempo in cui trova. Egli giudica quel che succede da uomo del Novecento, introduce, per illustrare le contraddizioni e le insufficienze dei suoi personaggi (o per dir meglio ciò che qualsiasi moderno giudicherebbe insufficienze, alla luce del mondo nuovo in cui vive, delle conoscenze acquisite nonché di una morale individuale e collettiva del tutto diversa da quella vigente negli anni in cui La donna del tenente francese è ambientato), riflessioni che semplicemente non potrebbero esistere nel mondo cui la sua creatività ha dato forma.

E se l’effetto che Fowles riesce a ottenere procedendo in questa maniera è in buona misura straniante, è indubbio che, superata la sorpresa, quel che resta, al di là della solidità dell’intreccio (che l’autore non manca di impreziosire con dosi di intelligente, puntuta ironia), è un orizzonte amplissimo lungo il quale la vista può spaziare. Raccontando insieme passato e presente, superando di slancio ogni convenzione letteraria, infrangendo regole stabilite e immutabili, Fowles conquista nuovi territori alla scrittura, dà spazio al senso e alla necessità inderogabile della sua ricerca; in una parola, interroga, sforzandosi di non porre limiti a se stesso, vestendo a un tempo i panni del narratore, del personaggio e finanche dell’osservatore critico della sua stessa opera, alla quale lascia l’ultima parola, consapevole del fatto che non possa essere chiarificatrice, proprio come non può essere conclusiva.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Mondadori, è di Ettore Capriolo. Buona lettura.

Il vento dell’est è il più sgradevole di Lyme Bay – che è il più grande incavo di quella gamba dell’Inghilterra che si tende verso sudovest – e una persona provvista di curiosità avrebbe potuto subito fare deduzioni altamente probabili sulla coppia che cominciava a percorrere il molo di Lyme Regis, il piccolo ma antico eponimo di quell’insenatura, in una mattinata incisivamente rigida e tempestosa verso la fine di marzo del 1867. 

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