Recensione di “La banalità del male” di Hannah Arendt
1961. Adolf Eichmann, burocrate nazista “esperto” di questioni ebraiche e attivamente coinvolto nell’organizzazione delle operazioni di sterminio degli ebrei, viene processato a Gerusalemme. Era stato catturato in Argentina quasi un anno prima da un gruppo di agenti segreti israeliani. Queste le accuse a suo carico: aver commesso, in concorso con altri, crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra sotto il regime nazista, in particolare durante la seconda guerra mondiale.
Hannah Arendt, filosofa e storica tedesca di origini ebraiche, segue tutte le udienze in qualità di corrispondente del New Yorker e dai suoi resoconti nasce un saggio, La banalità del male. Per il giovanissimo Stato di Israele, sorto dallo sterminio degli ebrei, dall’incubo feroce della Shoah, e per il Primo Ministro David Ben Gurion, Eichmann alla sbarra è un simbolo e un pericolo. Simbolo della resistenza del popolo ebraico, falcidiato ma non annientato dalla chirurgica volontà di distruzione del regime hitleriano, e pericolo di scivolare in quel cono d’ombra dove tutte le differenze si annullano, dove vittime e carnefici sono indistinguibili, dove la giustizia si fa vendetta e la vendetta diviene la sola forma possibile di giustizia (o peggio, la più efficace).
Eichmann rapito e non estradato dall’Argentina, processato a Gerusalemme per crimini contro il popolo ebraico e giudicato da ebrei, è qualcosa di più di un’eccezione alle regole fondamentali del diritto, in qualche modo ne è la negazione, o rischia di esserlo; e Arendt, con lucido coraggio, lo dichiara apertamente. “Questa aula”, scrive, “è certo una sede indovinata per il processo spettacolare che David Ben Gurion, Primo Ministro d’Israele, già prevedeva quando decise di far rapire Eichmann in Argentina e di farlo portare a Gerusalemme perché il Tribunale distrettuale lo giudicasse per la parte avuta nella ‘soluzione del problema ebraico’. E Ben Gurion, giustamente chiamato ‘l’architetto dello Stato’, resta il regista invisibile del processo. Non assiste a nessuna seduta; nell’aula del tribunale parla per bocca del Procuratore generale, Gideon Hausner, il quale, rappresentando il governo, fa proprio del suo meglio per obbedirgli”. Ma per una comunità che sopravvive alla propria fine, trova la forza di interrogarsi su quanto accaduto, di cercare una ragione per l’inesplicabile, di guardare fino in fondo all’abisso e di organizzarsi in uno Stato, è imperativo agire secondo logiche diverse da quelle immediate e brutali della rivalsa; è vitale rispettare se stessa e così pretendere il rispetto del mondo, quel mondo attraversato, ben prima dell’avvento di Hitler, dal veleno dell’antisemitismo e che si sente in diritto di dichiarare (parole del viceministro degli esteri egiziano Hussain Zulficar Sabri) che “Hitler non aveva colpa dello sterminio degli ebrei, che era stato vittima dei sionisti, i quali lo avevano spinto a commettere crimini che alla fine avrebbero loro permesso di raggiungere lo scopo: la creazione dello Stato d’Israele”. E Israele non si sottrae al proprio dovere, affida il giudizio su Eichmann a una corte di giudici, di uomini, di persone, presieduta da Moshe Landau, che “serve la giustizia con lo stesso zelo con cui Ben Gurion serve lo Stato d’Israele”.
La giustizia vuole che l’imputato sia processato, difeso e giudicato, e che tutte le altre questioni, anche se più importanti (‘come è potuto accadere?’, ‘perché è accaduto?’, ‘perché gli ebrei?’, ‘perché i tedeschi?’, ‘qual è stato il ruolo delle altre nazioni?’, ‘fino a che punto gli Alleati sono da considerarsi corresponsabili?’, ‘come hanno potuto i capi ebraici contribuire allo sterminio degli ebrei?’, ‘perché gli ebrei andavano a morte come agnelli al macello?’) siano lasciate da parte. La giustizia vuole che ci si occupi soltanto di Adolf Eichmann, figlio di Karl Adolf Eichmann, l’uomo rinchiuso nella gabbia di vetro costruita appositamente per proteggerlo. E ad Eichmann viene dedicata buona parte del resto del saggio. Alla sua vita di uomo comune, alla sua personalità grigia, impalpabile, all’ingresso nel partito nazista e al suo “lavoro tecnico”, di operaio della soluzione finale, diventato, nel mondo alla rovescia della dittatura hitleriana, “esperto” di un popolo da annientare. La banalità del male è la banalità di Eichmann e dei tanti come lui, ingranaggi di una delle più spietate macchine di morte della storia.
Saggio storico e politico, testimonianza e memoria, La banalità del male è uno dei documenti più importanti del Novecento, da leggere di generazione in generazione, come un’eredità. Eccovi parte della riflessione finale di Hannah Arendt. Buona lettura.
Tu hai ammesso che il crimine commesso contro il popolo ebraico nell’ultima guerra è stato il più grande crimine della storia, ed hai ammesso di avervi partecipato. Ma tu hai detto di non aver mai agito per bassi motivi, di non aver mai avuto tendenze omicide, di non aver mai odiato gli ebrei, e tuttavia hai sostenuto che non potevi agire altrimenti e che non ti senti colpevole. A nostro avviso è difficile, anche se non del tutto impossibile credere alle tua parole; in questo campo di motivi e di coscienza vi sono contro di te alcuni elementi, anche se non molti, che possono essere provati al di là di ogni ragionevole dubbio. Tu hai anche detto che la parte da te avuta nella soluzione finale fu casuale e che, più o meno, chiunque altro avrebbe potuto prendere il tuo posto: sicché quasi tutti i tedeschi sarebbero ugualmente colpevoli, potenzialmente. Ma il senso del tuo discorso era che dove tutti o quasi tutti sono colpevoli, nessuno lo è. Questa è in verità un’idea molto comune, ma noi non siamo disposti ad accettarla. E se tu non comprendi le nostre obiezioni, vorremmo ricordarti la storia di Sodoma e di Gomorra, di cui parla la Bibbia: due città vicine che furono distrutte da una pioggia di fuoco perché tutti gli abitanti erano ugualmente colpevoli. Tutto questo, sia detto per inciso, non ha nulla a che vedere con la nuova idea della ‘colpa collettiva’, secondo la quale gli individui sono o si sentono colpevoli di cose fatte in loro nome ma non da loro, cose a cui non hanno partecipato e da cui non hanno tratto alcun profitto. In altre parole, colpa e innocenza dinanzi alla legge sono due entità oggettive, e quand’anche ottanta milioni di tedeschi avessero fatto come te, non per questo tu potresti essere scusato.