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Il sommesso, tenace canto di quel che è giusto

Recensione di “Memed il falco” di Yashar Kemal

Yashar Kemal, Memed il falco, Giovanni Tranchida Editore

Una storia d’amore. Un racconto d’avventura. Un romanzo di formazione. Un rincorrersi d’emozioni in paesaggi da sogno e luoghi d’incubo. Una vicenda d’eroismo, giustizia, coraggio giocata sul filo sottilissimo della lealtà, della purezza dei sentimenti, di un’onestà profonda, solida come la terra. Tutto questo è Memed il falco, uno dei lavori più noti dello scrittore turco di origini curde Yashar Kemal, in Italia pubblicato da Giovanni Tranchida Editore nella traduzione di Antonella Passaro.
Quel che immediatamente colpisce, nella scrittura di Kemal, è la sua semplicità quasi disarmante; la costruzione dell’intreccio non prevede sorprese, l’autore dapprima descrive il contesto ambientale, conduce chi legge ad ammirare lo splendore dei luoghi che saranno teatro delle vicende narrate e con esso anche la durezza che caratterizza quegli ambienti, il sacrificio quotidiano che pretende dall’uomo che vuole abitarla e sfruttarne le ricchezze. Compiuto questo primo passo, è la volta dei personaggi, introdotti dalle loro azioni e dalle loro parole; si potrebbe pensare, a una prima, superficiale occhiata, che si tratti di caratteri monodimensionali, privi di sfumature, dotati di un profilo monocorde; malvagi fin nella più intima fibra i cattivi, buoni in ogni circostanza i virtuosi; tutto ciò però, malgrado sia innegabile, non riflette per nulla una visione fin troppo schematica (nonché ottusamente manichea) del mondo, bensì è specchio di un’acuta visione etica dell’autore. Quel che Yashar Kemal mette in scena, infatti, non è che l’eterno conflitto, la battaglia inestinguibile tra la virtù e il vizio, o per dirla con altre parole, lo scontrarsi continuo dell’uomo con se stesso, il dinamico intrecciarsi della sua natura multiforme; gli eroi di Kemal, i luminosi come gli oscuri, non sono che momenti della mutevole anima dell’uomo, custode del più alto sentire come dei più perversi appetiti. Nell’architettura romanzesca dello scrittore turco questo scontro, piegandosi alle esigenze della narrazione, si incarna nel protagonista (il giovanissimo Memed che dà il titolo al romanzo, povero, come tutti gli altri abitanti del villaggio in cui vive, Degirmenolu, circondato da una distesa di cardi, piante maligne, cui “non piace la terra buona” e che attecchiscono solo dove il suolo è “ingrato, arido e secco”) e nel suo oppositore, il capo di quel misero insieme di capanne (nonché di altri quattro), Abdi Aga, vile e corrotto, capace di ogni arroganza con coloro che non hanno alcun mezzo di difendersi ma fondamentalmente codardo, pronto a fuggire a gambe levate persino dinanzi alla propria ombra non appena le cose minacciano di deviare dalla rotta pianificata.

Ed è esattamente questo ciò che accade nel momento in cui Memed, costretto a fuggire dal villaggio assieme ad Hatçe, la ragazza che ama e che a lui ha consacrato il cuore ma che Abdi Aga ha scelto come sposa di suo nipote, in un conflitto a fuoco uccide il promesso consorte di Hatçe e ferisce gravemente lo stesso Abdi. Per Memed è la svolta definitiva; egli diviene fuorilegge, bandito e con le persone come lui, che hanno scelto la via della clandestinità, va a vivere, rifugiandosi nell’inaccessibilità dei monti. Qui impara a conoscere la realtà delle bande, a procacciarsi di che vivere tramite rapine e assalti, a evitare le imboscate dei soldati, ma sempre mantenendosi fedele a un proprio codice morale, evitando crudeltà gratuite, restituendo bene per il bene ricevuto e mai dimenticando la propria missione: eliminare una volta per tutte Abdi Aga per ridare libertà al suo villaggio e a tutte le terre su cui quell’uomo ingiusto e crudele signoreggia, riprendersi Hatçe (nel frattempo finita in prigione a causa di false testimonianze orchestrate a suo danno proprio da Abdi Aga) e vivere con lei in pace. In breve le gesta di Memed divengono leggendari; egli è, per tutti gli oppressi, il giusto, il coraggioso, colui che non si sottrae agli scontri e nonostante ciò non uccide se non è costretto a farlo (al punto che uno dei suoi più tenaci inseguitori, il sergente Asim, ha in più di un’occasione salva la vita grazie alla misericordia di Memed), fino a divenire Memed il falco, il bandito inafferrabile venuto al mondo in quelle terre meravigliose e feroci per riportare equilibrio e riparare una volta per sempre i troppi torti compiuti.

Piccolo grande eroe, Memed riluce tra le pagine di questo romanzo di cristallino splendore, capace di emozionare, commuovere, coinvolgere cuore e mente. Nella prosa di Kemal egli è l’ideale cui tendiamo, il bisogno che abbiamo di sentir vibrare il sommesso ma tenace canto di quel che è giusto in un mondo e in un tempo che hanno tragicamente smarrito se stessi.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Rocce bianche, lambite dal mare schiumoso, sorgono dalla costa meridionale della Turchia e si innalzano lentamente sempre più alte. Dal mediterraneo nascono i monti del Tauro. 

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