Recensione di “L’animale d’allevamento” di Oe Kenzaburo
«Finché non sapremo che cosa ne pensano in città, lo alleveremo». Così un padre risponde al proprio figlio, curioso di sapere cosa accadrà a un prigioniero di guerra, un soldato americano di colore precipitato con il suo aereo nei pressi di un villaggio giapponese fino a quel momento mai toccato dai bombardamenti.
Il villaggio non è che un misero gruppo di case circondato da una natura rigogliosa e indifferente; la città qualcosa di lontano e sfuggente, una realtà circondata di nebbia, da immaginare, così come figure prossime all’inconsistenza sono gli adulti, presenze fantasmatiche impegnate nel lavoro, nell’elaborazione di strategie di sopravvivenza, chiuse in silenzi misteriosi. In quel luogo che pare sospeso nel tempo, dunque, dove la tragedia della guerra giunge come un’eco lontana, come un racconto fiabesco capace a un tempo di affascinare e atterrire, a dominare sono i bambini. È il loro sguardo a “spiegare” quel che accade, sono le loro parole a rendere “veri” i fatti, è ciò che i loro cuori e le loro menti trasfigurano a vestirsi d’autenticità; sono perciò i giochi dei più piccoli – come per esempio la caccia ai cani selvatici – a “narrare” la guerra, ad avvicinare l’indicibile esperienza della morte, a sfiorarla, sono le loro riflessioni a dare espressione (e forse persino senso, per quanto distorto) a ciò che i grandi affrontano magari con coraggio ma senza comprensione alcuna, e sono i loro comportamenti, le loro reazioni, a illuminare ogni cosa. E bambino è la voce narrante del racconto L’animale d’allevamento dello scrittore giapponese Oe Kenzaburo (premio Nobel per la Letteratura) vincitore del prestigioso premio Akutagawa.
A questa voce, a questo personaggio, l’autore offre le più diverse modulazioni: l’ingenua meraviglia di fronte allo splendore immortale del paesaggio – “In quel periodo dell’anno, nel bosco dovevano essersi schiuse le infiorescenze degli abeti, simili a spighe d’erba. Alla fine dell’estate quelle spighe si trasformavano in frutti a forma di uova di uccelli selvatici e noi andavamo a raccoglierli per farne armi” […] “La lontana catena di montagne, del colore del rame che raccoglievamo nella pericolosa cava abbandonata della valle, era un mare blu cupo che brillava nel sole e che ci veniva incontro. Una biancheggiante manciata di mare puro” – la curiosità, sospesa tra morbosità e innocenza, tra crudeltà e misericordia, accesa dall’inaspettato arrivo di uno straniero, di un “ostaggio”, un onore, una responsabilità, e forse, chissà, addirittura una possibile tragedia per un villaggio abituato a pensare e vivere la guerra come una sorta di rumore di fondo – “Come quando d’inverno tornavamo dalla caccia al cinghiale, gli adulti circondavano solennemente ‘la preda’, le labbra serrate e le spalle quasi pateticamente curve mentre camminavano verso di noi. La ‘preda’, invece di indossare la divisa di seta marrone bruciato e calzare scarpe di pelle nera da aviatore, portava giacca e calzoni color cachi e ai piedi brutte scarpe pesanti. Il grosso viso scuro e brillante inclinato di lato, lo sguardo rivolto verso il cielo al tramonto, camminava trascinando i piedi e zoppicando. A ogni suo movimento risuonava la catena di ferro di una trappola per cinghiali, fissata a entrambe le caviglie. Noi bambini seguivamo in gruppo la processione degli adulti che circondavano la ‘preda’, anche noi muti come loro”. E infine il disilluso terrore di chi scopre che non esiste mondo che sia davvero dei bambini, che gli appartenga, cui loro possano dare forma, significato; e che in quel luogo oscuro del quale essi non sono che attoniti esploratori governano invece emozioni, sentimenti, gesti, che nulla hanno a che vedere con “il non essere grandi”: “Dalla massa degli adulti uscì mio padre con l’accetta in mano. Vidi i suoi occhi che ardevano di collera ed erano febbricitanti come quelli di un cane. Le unghie del soldato negro si conficcarono profondamente nella pelle del mio collo e io urlai. Mio padre ci si scagliò contro, e io, vedendo l’accetta sollevarsi, chiusi gli occhi. Il soldato negro mi afferrò il polso sinistro e lo alzò per proteggersi la testa. Tutto il sotterraneo fu un ululare di adulti e sentii lo sfracellarsi della mia mano e del cranio del soldato negro”. Splendido e terribile apologo sull’impossibilità dell’innocenza, L’animale d’allevamento, parte del volume Insegnaci a superare la nostra pazzia, edito da Garzanti e poi pubblicato da solo nella collana Racconti d’autore uscita in edizione speciale per Il Sole 24 Ore (in questa veste l’ho letto e ve lo presento) non è soltanto una magistrale prova di scrittura, è una lancinante, dolorosissima analisi sul significato dell’essere bambini, una condizione che sembra toccare la perfezione assoluta del paradiso e che pure, quasi inevitabilmente, come per una sorta di maledizione, finisce per sprofondare nella disperata tenebra dell’inferno.
Eccovi l’inizio, La traduzione è di Nicoletta Spadavecchia. Buona lettura.
Mio fratello e io rimestavamo con pezzi di legno la superficie morbida, odorante di grasso e di cenere del forno crematorio provvisorio, costituito da una buca poco profonda scavata nel sottobosco del fondovalle.