Recensione di “Macbeth” di William Shakespeare
“[…] ho già parlato del Macbeth. E chi potrebbe esaurir l’elogio di questo sublime lavoro? Dopo le Eumenidi di Eschilo, la poesia tragica non aveva prodotto niente di più grande né di più terribile. Le streghe […] non sono divinità infernali, né tali devono essere; sono vili agenti dell’inferno […]. Che nel secolo di Elisabetta si credesse o no agli spiriti e alla magia, è una questione totalmente separata dall’uso che fece Shakespeare nell’Amleto e nel Macbeth delle tradizioni popolari.
Nessuna superstizione si è potuta conservare e diffondere per più secoli e fra popoli diversi, senza che avesse un fondamento nel cuore umani; e a una tale disposizione si dirige il poeta. Egli evoca dagli abissi […] lo spavento dell’ignoto, il segreto presentimento d’una parte misteriosa della natura, d’un mondo invisibile intorno a noi. Vede pertanto la superstizione come pittore e come filosofo; non già […] come un filosofo che la disapprova e se ne ride, ma, ciò che è ben più raro tra gli uomini, come un pensatore il quale rimonta all’origine di tante opinioni, così sgradevoli e a un tempo così naturali; e la svela ai nostri occhi […]. Viene commesso un gran misfatto: un vecchio venerabile, il migliore dei re, Duncan, è trucidato nel sonno; e, ad onta delle santi leggi d’ospitalità, da uno dei suoi sudditi colmato da esso di benefici. Naturali motivi sarebbero sembrati troppo deboli a spiegare un’azione così fatta [allora] Shakespeare concepì un’idea sublime: ha mostrato un eroe pieno di grandezza, ma ambizioso, che soccombe ad una prova profondamente combinata dall’inferno; e che conserva il segno della primitiva nobiltà del suo animo in tutti gli eccessi a cui è trascinato dalle necessarie conseguenze del suo delitto […] e con raccapriccio noi vediamo quel guerriero, che prima sfidava la morte, ora che ha messo a repentaglio la vita avvenire attenersi con ansietà alla sua esistenza terrestre, e rovesciare spietatamente tutto ciò, che, secondo i suoi neri sospetti, lo minaccia di qualche pericolo. Se destiamo i suoi antenati, non possiamo senza pietà riguardare lo stato dell’anima sua. Deploriamo la perdita delle sue nobili qualità; e nondimeno ammiriamo ancora nel modo in cui egli ricompera la vita, la tensione di una volontà coraggiosa contro una vile coscienza”. Nell’analisi del Macbeth, capolavoro tragico shakesperiano, Wilhelm Schlegel (Corso di letteratura drammatica) coglie alla perfezione il senso dell’opera, considerata non semplicemente come un oscuro, terrificante dramma dell’ambizione, e dunque non come un rigido, manicheo intreccio di carattere morale che vede la progressiva rovina di una natura debole, talmente fragile da venir travolta da appetiti non del tutto propri – superfluo ricordare la trama di questo splendido classico della storia della della letteratura, ma vale comunque la pena di sottolineare quanto le parole ardite di Lady Macbeth trascinino il marito, appena promosso barone, verso quel trono promesso dalle streghe ma conquistato solo attraverso lo spargimento di sangue incolpevole – bensì come qualcosa di ben più articolato, complesso e soprattutto grandioso, che, quasi rispecchiandosi nell’eroismo del suo protagonista, esplora con impressionante radicalità gli abissi dell’animo umano, dove ogni certezza impallidisce fino a svanire.
A ben guardare, infatti, quel che di Macbeth ci fa fremere d’orrore non è, dal punto di vista etico, differente da ciò che in lui ci suscita ammirazione incondizionata; come ben spiega Schlegel il regicida mantiene il suo eroismo anche dopo essersi macchiato dell’infame delitto (non a caso Shakespeare gli rende l’onore di una morte degna di un combattente); una volta conquistato al potere – così come prima di arrivarci, del resto – egli è tormentato da dubbi e scrupoli, indizio chiarissimo di una coscienza non completamente torbida, di una nobiltà d’intenti e sentimenti in lotta costante con istinti selvaggi: le sue macchinazioni sono frutto di ossessioni, proprio come le allucinazioni di cui soffre (si pensi alla visione dello spettro di Banco, suo amico e compagno d’armi di un tempo fatto uccidere dai sicari, nella indimenticabile scena del banchetto); in una parola, Macbeth (e in qualche modo, seppur in diversa misura, anche la moglie), non si trasforma mai nell’opposto di se stesso, egli rimane uomo, e uomo tragicamente imperfetto tanto nella gloria di cui è colmato al principio dell’opera quanto nell’odio sempre più forte che suscita nel prosieguo della storia. La sua parabola, pertanto, sfrondata da ogni orpello artistico e letterario, è quella che in potenza attende ogni uomo, sulla cui strada, un giorno, potrebbero apparire tre streghe, incarnazione di tutto ciò che egli desidera. E senza averne coscienza, teme.
Invece dell’incipit della tragedia, eccovi ancora Schlegel; le conclusioni del suo illuminante saggio. Buona lettura.
In tutte le parti di questo ardito disegno si ravvisa un secolo vigoroso, un clima settentrionale che produce uomini di ferro. È difficile determinare esattamente la durata dell’azione: secondo la storia, comprende forse parecchi anni; ma sappiamo che il tempo più pieno d’avvenimenti è sempre il meno lungo per l’immaginazione; e ciò che si trova qui rinchiuso in breve intervallo, non pure riguardo agli avvenimenti esterni, ma relativamente allo stato morale dei personaggi, è veramente prodigioso.