Recensione di “L’assomoir” di Émile Zola
“Non c’era mai stato niente di paragonabile [in letteratura] al giorno delle nozze della coppia Coupeau, al loro fantastico pellegrinaggio in processione per le strade di Parigi sotto la pioggia, alla loro visita inzaccherata alle sale del Louvre, dove si perdono come nel labirinto di Creta, e al loro arrivo infine, affamati ed esasperati, alla guinguette dove cenano a un tanto a testa, pagando ognuno per sé, e dove noi ci sediamo accanto a loro, in mezzo all’unto e al sudore, e finiamo per abbandonarci, un po’ commossi e un po’ disgustati, alle loro spiritosaggini, alle loro miserabili, grottesche cattiverie. Ho parlato molto del meccanicismo di [Émile] Zola; ma qui c’è davvero, quasi insopportabile, il senso della vita”.
Così Henry James, nell’analizzare uno dei momenti al tempo stesso più lirici e tragicomici di L’assomoir – “primo romanzo sul popolo, che non menta e che abbia l’odore del popolo” secondo il giudizio espresso dall’autore – riassume ed esalta la straordinaria potenza narrativa di quest’opera e la sua tensione verso un’autenticità che sfiori l’assoluto, capace di restituire la realtà per ciò che è, con precisione piena, con impressionante brutalità. Non c’è spazio, in questo lavoro di Zola (settimo romanzo della serie dei Rougon-Macquart), per la pietà, né lo scrittore intende indulgere ad analisi sociologiche o a riflessioni economico-politiche che possano in qualche modo rendere ragione dello stato miserando del sottoproletariato urbano parigino che egli, con accenti così vivi, descrive. Émile Zola, nelle oltre 500 pagine de L’assomoir, che disegnano la terribile, oscena discesa agli inferi di una famiglia per concludersi con il suo annientamento (la protagonista principale è una donna, Gervaise, ma accanto a lei uguale importanza ha il marito, il lattoniere Coupeau, vittima, al pari dei suoi amici operai, del demone dell’alcol), indossa gli abiti da lavoro dei suoi personaggi, si appropria della libertà sguaiata del loro dialetto (l’argot delle periferie, il parlato spiccio delle bettole, dei capannelli che si formano nella penombra dei portoni, l’eruttare violento, acido dei litigi che squassano la miseria delle case colme solo di rabbia e disperazione, il bisbigliare invidioso e la pornografica curiosità del pettegolezzo, che quasi per riflesso condizionato inventa quel che non sa, precipitando lo squallore della verità in un abisso ancor più nero e fetido), li segue nei loro giorni perduti, nelle loro esistenze consumate prima ancora di essere vissute, e infine li osserva deragliare, perdersi e morire con la distaccata diligenza di uno studioso, limitando la sua scrittura, la prosa, a quel che è, a quel che accade. Egli dunque dà vita a un “romanzo non-romanzo”, a una cronaca, a un’inchiesta; testimonia senza prendere posizione. Molte delle sue pagine sono di una durezza che lascia senza fiato; L’assomoir non si sporge verso il lettore, non ammicca, non seduce; squaderna piuttosto, con freddezza implacabile; indica, mostra.
Tuttavia questo romanzo è troppo denso, troppo tragico, troppo devastante per essere una semplice fotografia dell’esistente. C’è ricercatezza, nel vero che Zola presenta, c’è studio, ci sono ricerca e rigore, c’è, ed emerge con chiarezza, stile, e precisamente lo stile narrativo dell’indiretto libero, e cioè la scelta, consapevole e rivendicata, di parlare, senza filtrare in alcun modo quel che vien detto, la “lingua degli ultimi”, fatta di sgrammaticature e bestemmie, di doppi sensi osceni, di finissime menzogne e sincerità gettate in faccia al prossimo con la violenza di uno schiaffo in pieno viso (Dopo Émile Zola, sarà Louis-Ferdinand Céline a dare sublime perfezione letteraria a questa tecnica espositiva, svelando in tutto il suo patetico orrore ciò che l’uomo è davvero con una forza e una radicalità che non hanno eguali nella storia tutta, non solo in quella della letteratura), e oltre a tutto questo c’è l’autore, visibile malgrado cerchi in ogni modo di celarsi; ci sono la sua ironia graffiante e spietata, i suoi giudizi – è vero, Zola non risponde mai alla domanda che egli stesso pone: la parabola autodistruttiva di Gervaise quanto è imputabile a colpe sue e quanto invece alle storture della società? Eppure il suo punto di vista in qualche modo viene a galla – e c’è una ricerca della “bellezza malgrado tutto”, del fiore “letterario” che germoglia dal letame. Se tutto questo è vero, allora L’assomoir è un romanzo, ed è un romanzo splendido proprio perché così spaventosamente “deforme”; è un romanzo riuscitissimo perché piega la tecnica a uno scopo dichiarato (il romanzo sul popolo e del popolo, che al popolo appartiene perché dal ventre del popolo nasce) e questo scopo fa trionfare, ed è un romanzo perfetto perché ha a suo fondamento una menzogna: un esibito “odio al gusto” che dell’odio è l’esatto opposto; è costruzione finissima di una verità che certo, pretende una sua forma d’espressione, ma che a questa forma non può giungere se non attraverso quella mediazione letteraria che così orgogliosamente dichiara di rifiutare. Solo “travestito” da letteratura L’assomoir diviene ciò che vuole essere: realtà.
Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Mondadori (il volume, consigliato, è impreziosito da una ricchissima introduzione e da un corposo apparato di note) è di Pierluigi Pellini. Buona lettura.
Gervaise aveva aspettato Lantier fino alle due del mattino. Poi, piena di brividi perché era rimasta alla finestra in vestaglietta, con quell’aria pungente, si era assopita, buttata sul letto di traverso, febbricitante, con le guance bagnate di pianto.
Recensione meravigliosamente scritta, complimenti ! Micol Mina
Grazie infinite!