Recensione di “Grammatica della fantasia” di Gianni Rodari
Scrive Novalis: “Se avessimo anche una fantastica, come una logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare”. Prende le mosse da qui, da questa intuizione – splendida perché feconda – la Grammatica della fantasia di Gianni Rodari, un libro unico, che verrebbe voglia di definire magico se solo si riuscisse a credere ai libri magici (ma non è forse leggendo gioielli come questo che può compiersi il miracolo?
Non è forse perdendosi nell’arte di inventare storie che si giunge a rendere possibile l’impossibile, a dotarsi di ali e finalmente volare?), un saggio coltissimo e meravigliosamente semplice capace di regalare sorprese a ogni pagina, di stupire, affascinare, coinvolgere, divertire, e quel che più conta insegnare senza mai dare l’impressione di farlo, o per dir con più esattezza senza mai volerlo fare. Perché il fantastico, la fantasia, l’invenzione, la creatività non sono “materie d’esame”, non sono un insieme di regole da mandare a memoria, una lezione da imparare da cima a fondo per far bella figura all’interrogazione e portarsi a casa un buon voto, non sono oggetto di verifica, sono l’esatto opposto di tutto questo, e insieme (se ben comprese, s’intende, ma soprattutto se vissute come meritano, e cioè con la spontaneità, la libertà e la gioia che suscitano e che sempre e ovunque le accompagna) ciò che sta alla base e in qualche modo fonda la scuola così come la conosciamo e ne facciamo esperienza, con tutto il suo corollario di pedantesca istituzionalizzazione e di pratiche che replicano se stesse anno dopo anno, quasi che il tempo non fosse altro che un trascurabile accidente. Ma cosa significa esattamente inventare storie? E perché è così importante? E come può qualcosa che in fondo somiglia a un gioco (e che forse è davvero soltanto un gioco) rivestire così tanta centralità? Ecco la risposta di Rodari, che è anche il passo d’avvio dell’indimenticabile avventura letteraria, culturale e più di tutto umana rappresentata dalla Grammatica della fantasia: “Un sasso gettato in uno stagno suscita onde concentriche che si allungano sulla sua superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore. Oggetti che se ne stavano ciascuno per conto proprio, nella sua pace o nel suo sonno, sono come richiamati in vita, obbligati a reagire, a entrare in rapporto tra loro. Altri movimenti invisibili si propagano in profondità, in tutte le direzioni, mentre il sasso precipita smuovendo alghe, spaventando pesci, causando sempre nuove agitazioni molecolari […]. Non diversamente una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene continuamente, per accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e distruggere”.
Una parola, dunque, un suono cui è legato un significato, e un significato che richiama molto altro, cose vicine ed altre enormemente distanti eppure non estranee, perché nulla, in realtà, è estraneo alle parole, e perché tutto è un parto della fantasia, origina dalla purezza di un atto creativo. Ed ecco che dalla parola si passa al binomio, o meglio al “binomio fantastico”, che si forma per opposizione, per contrasto – “L’immaginazione”, spiega ancora Rodari, “non è una qualche facoltà separata dalla mente: è la mente stessa, nella sua interezza, la quale, applicata ad una attività piuttosto che ad un’altra, si serve sempre degli stessi procedimenti. E la mente nasce nella lotta, non nella quiete”. Da lì, proseguendo in un viaggio in apparenza senza meta che tuttavia giunge in ogni terra, compaiono le suggestive, intriganti ipotesi evocate dal “cosa succederebbe se…?” , e i ricchi, grassi pascoli delle parole deformate e dei prefissi arbitrari (tutti sappiamo cosa si può fare con un temperino, ma chi si trovasse tra le mani uno stemperino come lo utilizzerebbe?), e il cangiante orizzonte dell’errore creativo, capace di portarci dalla lontana Lapponia al paese fantastico ma non certo irreale (e perché poi irreale?) di Lamponia, e l’inesplorata foresta vergine delle storie sbagliate, dove la nostra eroina si chiama Cappuccetto Giallo e va a trovare una certa zia Rosina… e davvero si potrebbe continuare all’infinito. Del resto, è forse pensabile una fine alle storie?
Se è vero che il solo autentico giudice della qualità e del valore di un’opera letteraria è il tempo (altro che trascurabile accidente!) credo si possa affermare che la Grammatica della fantasia, a oltre mezzo secolo dalla sua pubblicazione, non solo non è stata intaccata dal passare degli anni, ma al contrario resa sempre più preziosa, sempre più indispensabile. Qualcosa, insomma, di cui dobbiamo essere grati.
Eccovi, invece dell’incipit, quel che di questo libro scrisse Tullio De Mauro in un articolo del 1974 pubblicato da Paese Sera. Buona lettura.
Un libro sulle favole, dunque. Ma un libro di Rodari. E perciò, non un accigliato e grave libro sulla meta teorizzazione della struttura epigenetica del favolistico, ma un libro che viene voglia di leggere a tutti, e non solo agli accademici di Samarcanda. Anche se, a vero dire, gli accademici non faranno male a leggerlo, questo libro, serio, profondo, nuovo, pur nella sua larga accessibilità.