Recensione di “Stirpe di drago” di Pearl S. Buck
“Nata a Hillsboro nella Virginia occidentale il 26 giugno 1892 da Absalom Sydenstricker e da Caroline Stulting, Pearl Comfort nell’autunno dello stesso anno è già in viaggio verso la Cina dove i genitori fanno i missionari della chiesa presbiteriana (calvinista). Presso Chin-kiang, una città di 200.000 abitanti sul fiume Yang-Tse essi possiedono un confortevole bungalow. La vita procede senza particolari scosse fino al 1900 quando, con la rivolta dei Boxer, i Sydenstricker sono costretti a riparare precipitosamente a Shangai.
In generale, appunto per il ruolo svolto, i missionari vivevano in una condizione privilegiata pur se non scevra da pericoli: privilegiata perché, come nel caso dei Sydenstricker, disponevano di molto denaro e di moltissimi mezzi e appoggi; pericolosa perché il brigantaggio ufficializzato, i traffici d’oppio, l’organizzazione della prostituzione dilagante – aspetti tipici di un paese poverissimo e arretrato – insidiavano la vita dei colonizzatori […]. Pearl apprende la lingua cinese da King e da una governante cantonese. Sarà la vecchia cantonese a raccontarle leggende e storie di magia taoiste, mentre il maestro King le insegna il pechinese. Quando nel 1910 i genitori la mandano a studiare a Lynchburg in Virginia, Pearl Comfort conosce già parecchi dialetti cinesi e, a fondo, la lingua letteraria […]. È impossibile parlare dell’opera di Pearl Comfort Sydenstricker Buck senza pensare alla Cina nella quale è vissuta per quasi metà della sua vita, una Cina fiabesca e violenta, povera e piena di sesso, un paese dove non si è mai sentita ospite ma dove è vissuta in una posizione di assoluto privilegio economico e sociale, dove i termini Occidente e Oriente sono stati anche per lei dei termini di comodo […]. Rimane da annotare un fatto assai importante: Pearl Sydenstricker Buck è ancora oggi una delle scrittrici più amate e seguite. Come mai, se il paese di cui ha così diffusamente scritto è tanto mutato nelle sue strutture e nella sua stessa vita quotidiana? Perché il mondo della Buck era, nonostante le apparenze, un mondo variegato, anche ambiguo, sempre tuttavia assai stimolante. La violenza degli uomini contrasta con la grande umanità delle donne. In verità dell’animo femminile, l’americana sapeva tutto. La personalità delle varie figure rende perciò incisive le trame e plausibili gli esiti delle storie. Nonostante Pearl Comfort abbia tentato molte altre strade, essa è rimasta la maggior vessillifera di una Cina di cui, anno dopo anno, si va perdendo traccia”. Così Ferruccio Fölkel, nella postfazione a Stirpe di drago (in Italia pubblicato da Mondadori nella traduzione di Giorgio Monicelli) introduce all’opera della scrittrice statunitense Premio Nobel per la Letteratura nel 1938, un’opera che pur avendo la Cina come orizzonte, confine e palcoscenico quel che porta in primo piano è la complessa umanità dei suoi personaggi. In Stirpe di drago, dove si narra la resistenza ostinata di una famiglia contadina (meglio, di un intero villaggio) all’indomani della feroce invasione giapponese del 1937, che si consumò tra violenze e massacri indicibili, a emergere, in un raccontare quieto, regolare, che pare seguire l’eterno ritorno delle stagioni, che ha il respiro allo stesso tempo ingenuo e saggio di un sapere popolare nutrito di tradizioni, di credenze, della memoria della terra e del miracolo della vita che custodisce nel suo grembo, non è lo sconvolgimento delle armi, che esplode improvviso con la violenza di un temporale e lascia le genti interdette più che spaventate, sorprese più che terrorizzate (e in seguito, una volta compreso senza possibilità di dubbio ciò che è accaduto, persuase che una costante, determinata resistenza passiva sia l’unica risposta possibile al nuovo ordine imposto dai conquistatori, l’unica autentica dimostrazione di patriottismo), bensì il carattere dei protagonisti, della famiglia di Ling Tan in particolare, attorno alla quale l’intero romanzo è costruito.
La dicotomia coraggio-viltà è l’asse d’equilibrio della storia; e se non v’è cinese che non sia convinto che respingere la brutalità dei soldati sia non soltanto un dovere ma un imperativo morale, ognuno difende la propria idea di coraggio; così, chi sceglie di allearsi (o finge soltanto di farlo) ai dominatori, giudicato un traditore da coloro che li osteggiano in ogni modo possibile, lamenta che la propria battaglia non solo non venga compresa ma addirittura tragicamente fraintesa, mentre tutti coloro che, come lo stesso Ling Tan e i suoi figli, non fanno che escogitare piani per mettere i bastoni tra le ruote ai “diavoli giapponesi”, sono allo stesso tempo oggetto d’ammirazione d’indivia da parte di chi, colpevole solo di voler reagire ma di non saperlo fare, ha perduto tutto, figli, terra, dignità, riducendosi a una devastata ombra d’uomo consumata dalla consolazione allucinata e perversa dell’oppio. In questo scenario di miseria diffusa ma di luminosa umanità a brillare più di chiunque altro (nel bene come nel male) sono le donne, madri e mogli, vittime della cupidigia degli invasori a migliaia eppure mai del tutto vinte, mai del tutto sconfitte. Sono loro, non si stanca di ripeterci Buck, la misura del sostanziale fallimento di quella guerra. Forse di ogni guerra.
Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.
Ling Tan alzò il capo. Nella risaia in cui stava con l’acqua fino alle ginocchia udì risuonare la voce alta e squillante di sua moglie. Perché mai la donna doveva chiamarlo ora a mezzo il pomeriggio, quando non era né ora di mangiare né ora di dormire?