Recensione di “L’importanza di ogni parola” di Toni Morrison
“[…] Ai fini della prosecuzione del mio discorso, vorrei che concordassimo sul fatto che in tutta l’istruzione che riceviamo, dalle varie scuole, ma anche a casa o per strada o altrove, che derivi dallo studio o dall’esperienza, avviene una sorta di progressione: passiamo dai dati alle informazioni alla conoscenza alla saggezza. Separare una cosa dall’altra, essere capaci di distinguerle, cioè capire le limitazioni e il pericolo derivanti dall’uso dell’una senza le altre, e nel contempo rispettare ciascuna categoria dell’intelligenza, è in genere l’obiettivo di un’istruzione seria.
E, se siamo d’accordo sul fatto che esiste una progressione con uno scopo, allora vi accorgerete subito di quanto possa essere demoralizzante il progetto di trarre o costruire o fabbricare narrativa dalla storia, o di quanto sia facile, e allettante, presumere che i dati siano in realtà conoscenza. O anche che le informazioni siano saggezza. O che la conoscenza possa esistere senza dati. E capirete con quanta facilità, e quanto poco sforzo, una cosa possa mettersi in mostra travestita da un’altra. E con quanta rapidità possiamo dimenticare che la saggezza senza conoscenza, la saggezza senza alcun dato, è solo un’intuizione […]. L’altro problema […] era rappresentato dalla schiavitù […]. Come starci dentro senza arrendersi a essa? […]. Il problema era come togliere il potere immaginativo, il controllo artistico all’istituzione della schiavitù e collocarlo dove era giusto che stesse: nelle mani degli individui che la conoscevano, certo non meno degli altri, e cioè gli schiavi. Senza, però, liquidarla in fretta o sminuirne l’orrore. Perché il problema è sempre la pornografia della violenza. È molto facile scrivere di un argomento del genere e ritrovarsi nella posizione di un voyeur, scoprire che la violenza, le scene grottesche, il dolore e la sofferenza sono diventati la scusa stessa per leggere il libro; e provare un certo gusto a osservare le sofferenze altrui”. Toni Morrison, scrittrice statunitense Premio Nobel per la Letteratura nel 1993, riflette su letteratura, politica, società, diritti umani, razzismo, sul significato, o meglio sull’inestricabile groviglio di significati legati al colore della pelle, all’“appartenenza biologica”, concetto tanto astratto quanto pericoloso che da troppo tempo ormai (forse da sempre, un pensiero che dà vertigine) ha sostituito quello di consesso umano, nella raccolta L’importanza di ogni parola (in Italia pubblicata da Frassinelli nella traduzione di Silvia Fornasiero e Maria Luisa Cantarelli).
Tra discorsi – compreso quello per l’accettazione del Nobel, che contiene questo indimenticabile passo, specchio della vita e dell’opera della Morrison: “Moriamo. Forse questo è il significato della vita. Ma produciamo il linguaggio. E forse questa è la misura delle nostre vite” – tributi (a Martin Luther King, allo scrittore di colore James Baldwin, Romare Bearden, artista afroamericano), analisi (sulla presenza afroamericana, e sui modi di questa presenza, nella letteratura degli Stati Uniti, sul senso del linguaggio nei lavori della stessa Morrison, impegnata a discutere di “razza” da un punto di vista che non sia esclusivamente “razziale” né soltanto quello di una persona “di colore”, dei lavori di Chinua Achebe e Gertrude Stein), approfondimenti di particolari temi (donne, razza e memoria, letteratura e futuro, musei, cultura e integrazione), Toni Morrison si sforza di fare luce sulla parola, sulla sua importanza, sulle responsabilità cui ci obbliga, sul nostro dovere di non sottovalutarne la centralità, il potere, sull’obbligo all’impegno che ogni parola (che è parte di noi nello stesso modo in cui noi siamo parte di ciascuna di loro) ha il diritto di pretendere da coloro che la scelgono, la fanno propria, e così scrive: “La lettura è fondamentale – è un divertimento fondamentale. Nel discorso popolare è considerata quantomeno edificante, istruttiva; nei casi migliori si ritiene stimoli pensieri profondi. Ho cominciato presto a riflettere sulla pratica della lettura sia nella veste di colei che scrive/immagina sia nella veste di avida lettrice. Ho imparato a leggere a tre anni, ma l’ho sempre trovato difficile. Non nel senso che facevo fatica a leggere, ma nel senso che faticavo per trovare il significato nascosto dentro e oltre le parole. La frasetta del primo libro di lettura ‘Corri, Jip, corri’ mi portava a chiedermi: Perché il cane corre? È un ordine? E, in questo caso, dove deve correre? Lo inseguono? O è lui che insegue qualcuno?”.
Vi lascio con un estratto della conferenza intitolata “Guerra all’errore”, patrocinata da Amnesty International e tenuta a Edimburgo nell’agosto del 2004. Buona lettura.
[…] Viviamo in un mondo in cui la giustizia equivale alla vendetta. In cui i profitti privati determinano le politiche pubbliche. In cui il corpo delle libertà civili, conquistato cellula dopo cellula, osso dopo osso, da quei coraggiosi che ormai ci hanno lasciato, si dissecca nel calore rovente del «solo guerra, sempre guerra», e in cui la prospettiva di un conflitto eterno può far vacillare il rispetto e persino l’interesse per le soluzioni umanitarie […]. Credo sia giunto il momento di una nuova guerra all’errore. Una battaglia decisiva contro l’ignoranza coltivata, il silenzio forzato, il moltiplicarsi delle menzogne. Una guerra a tutto campo, combattuta ogni giorno dalle organizzazioni per i diritti umani, tramite diari, rapporti, indici, viaggi pericolosi e incontri con le forze oppressive e maligne. Una lotta intensa e ben finanziata per salvarci dalla violenza che sta inghiottendo i diseredati […]. Basta scusarsi per avere il cuore straziato, quando l’alternativa è non averlo affatto. Al pericolo di perdere la nostra umanità dobbiamo opporre ancora più umanità.