Recensione di “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” di Oliver Sacks
Cos’è esattamente e cosa significa l’espressione “Geografia del mondo”? E qual è il senso di una frase come “il mondo dietro una canzone”? E cosa studia la “scienza romantica”? A tutte queste domande offre una risposta la definizione di “paesaggio interiore”, quell’insieme di sensazioni, emozioni, esperienze, ricordi, attese, desideri, sogni e con essi quella delicatissima ingegneria chimico-fisica del cervello che presiede a un’architettura unica, irripetibile, che non è possibile studiare più di quanto sia possibile scomporre in fattori primi un flusso di coscienza ma che va conosciuta, o per dir meglio, esplorata, con il rigore della scienza e l’entusiastica curiosità dell’appassionato, con l’attenzione dell’esperto e la spontaneità dell’innamorato, con l’approccio del medico e l’incorrotta pietà da cui a volte, per una sorta di miracolo, l’uomo è toccato.
Questa personale geografia, che pur essendo patrimonio singolo parla la lingua degli universali, è allo stesso tempo salute e malattia, è difficoltà, tragedia, impotenza, ed è sovrabbondanza, luce così intensa e forte da abbacinare e tenebra impenetrabile, esasperata vitalità e tetro silenzio, pura gioia e muta resa, ed è lo spazio mentale e fisico lungo il quale si dipanano le storie che compongono il meraviglioso libro di Oliver Sacks intitolato L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (in Italia pubblicato da Adelphi nella traduzione di Clara Morena). Neurologo, psichiatra, scienziato e non ultimo umanista (proprio come lo è stato uno dei suoi maestri, il russo Alexandr Romanovic Lurija, da Sacks più volte citato – è sua l’espressione “scienza romantica” – e unanimemente riconosciuto come il fondatore della neuropsicologia) Oliver Sacks narra storie ai limiti dell’incredibile, avventure da barone di Munchausen della mente e del corpo occorse ai suoi pazienti, tutti affetti da gravi patologie cerebrali; nel raccontare, tuttavia, l’autore, pur senza omettere nulla del quadro clinico preso in esame, trascende la concretezza della malattia, del danno così come siamo abituati a considerarla, in quella sorta di abito di severa astrattezza con il quale guardiamo a una minaccia che non comprendiamo se non come potenziale pericolo, per giungere, esattamente nello stesso modo in cui si comporta il male ma dalla prospettiva opposta, all’uomo considerato nella sua integrità (non importa quanto fragile, quanto instabile), perché questa questa completezza è l’essenza dell’essere umano, il suo senso ultimo, ed essa, malgrado le devastazioni causate dalle patologie, non viene mai realmente meno. Scrive infatti Sacks: “Il termine preferito della neurologia è «deficit», col quale si denota una menomazione o l’inabilità di una funzione neurologica […]. Ad attrarre il mio interesse […] sono stati non tanto i deficit in senso tradizionale, quanto le turbe neurologiche che colpiscono il sé. Queste turbe possono essere di vari tipi, possono derivare da un eccesso non meno che da un indebolimento di una funzione, e pare ragionevole considerare queste due categorie separatamente. Ma va detto fin dall’inizio che una malattia non è mai semplicemente una perdita o un eccesso, che c’è sempre una reazione, da parte dell’organismo o dell’individuo colpito, volta a ristabilire, a sostituire, a compensare e a conservare la propria identità, per strani che possano essere i mezzi usati: e lo studio o l’orientamento di questi mezzi, non meno che lo studio dell’insulto primario al sistema nervoso, è parte fondamentale del nostro lavoro di medici”.
Dall’osservazione (sempre autentica, partecipata) di queste reazioni, ecco nascere la “scienza romantica” di Lurija, che nell’elaborazione di Oliver Sacks si fa empatia con ognuno dei suoi pazienti, volontà di comprendere, non meno della malattia, la risposta emozionale e fisica del malato, i suoi sforzi di riequilibrio, la sua capacità di adattamento, la sua volontà di non arrendersi alla menomazione, la sua strategia volta a sostituire quel che ha perduto con una “protesi” di propria invenzione. Così, ogni storia, ogni vicenda, ogni avventura dello spirito e del corpo si fa bagaglio di conoscenza scientifica ed emotiva, scoperta a un tempo della meccanica del cervello e di quella del cuore, misura dell’anormalità del liquido spinale o di un corto circuito dei lobi temporali registrato da un elettroencefalogramma e stupefatta e commossa visione dello sconfinato continente di numeri abitato da una coppia di gemelli ritardati, che delle cifre da cui vivevano circondati vedevano quel che ai sani è impedito, e cioè la bellezza, la ricchezza, l’intima e assoluta perfezione, l’infinita fecondità; e totale ammirazione per lo straordinario talento d’attrice della “povera idiota” Rebecca; e ancora assorto ascolto del magnifico rigoglio musicale per parkinsoniano Martin, già offeso da una gravissima meningite sofferta durante l’infanzia.
Libro splendido, impareggiabile per acutezza e sensibilità, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello è una lettura che non si dimentica. Un ecce homo tra i più preziosi che la storia della letteratura ci abbia regalato.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Il dottor P. era un eminente musicista, che per parecchi anni godette di notorietà come cantante e in seguito come insegnante alla locale Scuola di Musica.