Recensione di “Il maestro della testa sfondata” di Hans Tuzzi
Tutto comincia poco dopo le cinque di una fredda mattina. Il palcoscenico è l’incolore, depressa periferia milanese. L’architettura nata povera degli edifici popolari, le strade invase dalla fanghiglia, il cemento dell’urbanizzazione stretto d’assedio dal verde selvatico di una campagna che sembra non volerne sapere di farsi città, l’esibita miseria delle roulotte di fortuna di un campo nomadi, strette le une alle altre nella grottesca imitazione di un abbraccio. Comincia tutto qui, agli estremi confini di una Milano che faticosamente cerca di stirare le proprie membra, di ingrandirsi, svilupparsi, crescere.
Siamo alla fine degli anni Settanta e nel silenzio del quartiere Barona, al capolinea di un autobus, viene ritrovato un cadavere. Si tratta del conducente del mezzo, ucciso con inaudita ferocia, la testa ridotta a un grumo di carne e sangue. Perché un semplice lavoratore, un uomo dalla vita in apparenza tranquilla e trasparente (una moglie, due figli, un appartamento decoroso e nulla più in una zona come tante, di quelle che conosci solo se ci abiti) è stato ammazzato? E perché in un modo così brutale? E ancora per quale ragione l’assassino, dopo averlo finito, ha voluto ulteriormente umiliare il cadavere spogliandolo dei calzoni e lasciandolo seminudo, le terga oscenamente esposte, nel bel mezzo dell’autobus? E infine perché quell’autobus è fermo a un capolinea che non è il proprio? A tutte queste domande deve rispondere il commissario Melis, poliziotto capace, paziente, dotato sia di grande capacità di ragionamento sia di buon intuito, spigoloso di carattere ma non burbero, e soprattutto sinceramente affezionato a ciascuno degli uomini che coordina e dirige, una squadra di immigrati meridionali che se non brilla per preparazione culturale è di certo ricca di umanità e saldamente ancorata a valori per i quali non esiste (o meglio non dovrebbe esistere) prezzo. Creatore di questo eterogeneo ma equilibrato e felice microcosmo è lo scrittore milanese Hans Tuzzi (pseudonimo di Adriano Bon; in questo blog, se vi interessa, trovate qui la recensione di un altro suo lavoro, Perché Yellow non correrà, seconda indagine del commissario Melis), che in questo suo romanzo d’esordio, intitolato Il maestro della testa sfondata, introduce il lettore nel mondo raffinato e quasi esoterico del collezionismo dei libri antichi e rari (di cui è profondo conoscitore). Il commissario Melis, infatti, non ci mette molto a scoprire che l’ucciso arrotondava i propri guadagni lavorando nel tempo libero per un libraio antiquario; e quando si rende conto che pochi giorni prima dell’omicidio proprio quell’uomo è morto in circostanze sospette (per un infarto sembra, ma molte cose possono provocare un infarto, una minaccia per esempio, o un ricatto), ecco che in lui si radica la certezza che i due avvenimenti siano legati tra loro.
Con sottile eleganza e intelligente ironia Tuzzi disegna luci e ombre della sua città, immagine e specchio di quelle che segnano le vite di tutti: lavorando al pari di un pittore sui contrasti, spingendosi ad esaltare, in ogni quadro che compone ciò che stride (i caratteri dei personaggi, a partire da Melis, sicuro di sé eppure in qualche misura in soggezione di fronte alla Milano ricca, blasonata e gonfia d’irritante, gratuito snobismo rappresentata da coloro che, tanto in qualità di venditori quanto nelle vesti di compratori, frequentano il dorato, esclusivo, elitario mondo della cultura sfoggiata quasi solo per esibizionismo e vanità nello splendore delle edizioni antiche, così difficili da identificare nella loro originale purezza; Milano evocata con amore, descritta con minuzia d’artista ma anche con severità, in qualche modo giudicata nelle sue disuguaglianze inevitabili forse, ma non per questo meno odiose, mento ingiuste – “[…] i contegnosi quartieri a nord della Stazione Centrale sembravano deserti, a parte il traffico sulla circonvallazione. La casa in via delle Leghe era invece un relitto di quella Milano che già dal secondo Ottocento aveva lentamente inglobato piccoli paesotti, case a due o tre piani, un’edilizia di ringhiere e confini interni al confine tra città e campagna […]. Dalle finestre del salone […] lo sguardo spaziava sul giardino interno, che da via Manzoni arrivava sino al giardino della Villa Reale, creando la magia, nel pieno centro cittadino, di un’ampia foresta segreta proibita al volgo profano”) egli giunge a inserire tutto questo in un meccanismo giallo bel oliato, scorrevole, coinvolgente, nel quale tutte le regole del genere sono rispettate (dalla pluralità delle piste d’indagine sulle quali lavorare alla difficile ricerca del movente, fino allo scioglimento dell’enigma della “testa sfondata” e all’agognata cattura del colpevole).
Certo, in più di un momento la prosa di Tuzzi, sempre raffinata, sembra in qualche misura uscire di strada, abusare dei vestiti preziosi di cui s’agghinda per dar voce agli appassionati bibliofili e agli addetti ai lavori con cui Melis è costretto ad avere a che fare e perdersi in una fanciullesca contemplazione di sé. Ma se di peccato si tratta, lo si può senza patemi rubricare tra quelli veniali.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Quariere Barona, ore 05.15. Non era nemmeno un’alba: a febbraio, le cinque e un quarto fa ancora buio. E freddo, porco d’un cane, pensò l’Alberto Cristofori battendo con forza le mani guantate e avvolgendo intorno al collo la sciarpa di lana.