Recensione di “E non disse nemmeno una parola” di Heinrich Böll
Un uomo consumato dalla guerra. Una città devastata dalle bombe. Un donna, una madre, stravolta dalla fatica, dal dolore, dall’amore. E un labirinto di solitudini, di voci sussurrate, di pensieri che si rincorrono tra vicoli sudici, sfilacciano come fumo di sigaretta nell’uniforme grigiore del cielo, affogano nello stordimento a buon mercato assicurato dall’acquavite.
Ovunque la tirannia disperata della povertà, l’esasperazione di chi, costretto all’umiliazione della mendicità, ricorre alla violenza verso coloro che maggiormente ama, la sola possibile, la sola praticabile all’indomani di un conflitto che ha svelato all’uomo la più crudele e intollerabile delle verità: che non c’è alcuna ragione per annientare coloro che ti è stato ordinato di odiare, uomini e donne in cui senza difficoltà potresti riconoscerti ma che qualcun altro ha eletto al rango di tuoi nemici. Nel romanzo E non disse nemmeno una parola (in Italia edito da Mondadori nella traduzione di Italo Alighiero Chiusano), Heinrich Böll mette in scena lo smarrimento di una Germania violentata dalla barbarie nazista attraverso il naufragio di due coniugi, Fred e Käte, i quali, pur amandosi ancora, vivono divisi, lontani l’uno dall’altra, e si incontrano solo di tanto in tanto, quando le precarie condizioni economiche lo consentono, in squallide camere d’albergo per trascorrere assieme qualche ora. Il romanzo, i cui capitoli riflettono alternativamente i punti di vista della coppia protagonista, è un continuo interrogarsi senza risposta su un presente cresciuto dentro le persone come una cellula tumorale, un tempo amaro, dove a dominare sono le macerie materiali degli edifici e delle strade e quelle spirituali di un’infelicità diffusa, di una resa che riecheggia nelle vuote formule di messe e preghiere ripetute nella penombra di chiese semideserte, nel conversare stentato degli avventori di un bar, nel chiasso forzato di una fiera, nell’ordinato avanzare di una processione religiosa che in marcia verso la misericordia di un Dio invisibile e irraggiungibile ricorda la squadrata, illusoria bellezza di battaglioni lanciati alla conquista di una vittoria intangibile forse più della divinità. “[…] Poi vennero i singoli parroci della città, fiancheggiati da grandi lampade portatili barocche, e mi accorsi di quanto fosse difficile avere un bell’aspetto nella veste secentesca del clero secolare. La maggioranza dei parroci non aveva la fortuna di possedere un volto ascetico, molti erano grassi e sembravano scoppiare di salute. Quasi tutti quelli che stavano sui marciapiedi, invece, erano malridotti, con un’aria esausta e un tantino smarrita […]. Fui attirato nel vortice della massa, che ora si stava accodando affannosamente per assistere alla funzione conclusiva in duomo. Tentai invano, per qualche tempo, di sgattaiolare a destra o a sinistra. Ma ero troppo stanco per farmi largo […]. Tutta quella gente mi faceva schifo e cominciai a odiarla. Fin dove arrivano i miei ricordi, so che ho sempre avuto una […] repulsione per i castighi corporali […]. Anche con i prigionieri di guerra. Ma da qualche mese […] provo spesso il desiderio di percuotere qualcuno in pieno viso, e talvolta ho picchiato i miei bambini, perché il loro chiasso mi irritava quando tornavo stanco dal lavoro. Li picchiavo forte, molto forte, ben sapendo che non era giusto ciò che stavo loro facendo, e mi spaventavo vedendo che perdevo il controllo di me stesso”.
Pagina dopo pagina, l’evangelico precetto “ama il prossimo tuo” sembra sempre più perdere forza. I personaggi di Heinrich Böll non smettono di cercare Dio, e in lui se stessi, ma ogni loro fatica appare vana, fiaccata sul nascere da uno sfinimento quasi metafisico, superumano, contro il quale nessun riposo ha efficacia. Non sono le membra, non è il corpo a ribellarsi; in Fred, in Käte, nel loro essere l’uno per l’altra genitori, amanti, compagni, alleati, quel che emerge è un’insanabile frattura emotiva, è la coscienza dell’insufficienza del proprio darsi a chi abbiamo accanto, dell’amore, sentimento cui ci è impossibile rinunciare, cui ci aggrappiamo proprio nei momenti più difficili, ma che proprio in questi frangenti manifesta la sua debolezza, il suo limite, la sua nudità misera.
Forse più ancora che in altri suoi lavori Böll bagna di disillusa ironia una prosa essenziale, scarna, che come polvere si posa su ciò che descrive (le cose al pari degli uomini) sottolineandone brutalmente la precarietà, facendola addirittura emergere quale tratto costitutivo, essenziale di tutto ciò che è. Che, a differenza di quel che ci si ostina a credere, non ha resistito alla dissoluzione ma ne è parte.
Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura e buona Pasqua.
Dopo l’ufficio andai alla cassa a ritirare lo stipendio. Lo sportello era molto affollato e dovetti aspettare mezz’ora. Porsi il mio assegno e vidi il cassiere che lo passava alla ragazza con la camicetta gialla.
E’ un romanzo che ho letto tanto tempo fa, ma ne serbo ancora un ricordo: un profondo turbamento. La desolazione lasciata dalla guerra, la povertà, ma anche lo sconforto di non riuscire ad intravedere grandi speranze nemmeno nel futuro.
Bello anche l’alternarsi delle due voci nei capitoli.
Concordo su tutto.