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Un cieco orizzonte

Recensione di “Copritele il volto” di P.D. James

P.D. James, Copritele il volto, Mondadori

Raccontare a distanza dai fatti. Ricostruire un tassello dopo l’altro. Farlo con metodo, ordine, osservando da ogni possibile punto di vista e convergendo, poco alla volta, verso un’unica prospettiva. In una parola, ripercorrere. Riguardare. Vedere di nuovo. Ricordando. E alla fine confessando.

Lungo questo cammino, che procede dall’evento già accaduto (e che dunque nella lettura ci si attende) per giungere alla sua “spiegazione”, che coincide con la scoperta dell’autore, di colui che quell’azione – un delitto, in questo caso, l’uccisione di una giovane ragazza madre assunta come cameriera da un famiglia della nobiltà campagnola inglese ormai decaduta e alle prese con qualche difficoltà economica – ha materialmente commesso e delle ragioni che lo hanno spinto ad agire, avanza (a un ritmo particolarissimo, che sembra più simile alle onde di marea che di continuo si sovrappongono le une alle altre senza mai riuscire davvero a conquistare nuove porzioni di terra oltre quella che arrivano a bagnare nel momento in cui si rovesciano a riva invece che a un vero e proprio cammino, per quanto incerto e prudente) Copritele il volto, esordio della scrittrice inglese Phillys Dorothy James e del suo celebre personaggio, l’ispettore capo Adam Dalgliesh. Il puzzle che James mette in scena e che Dalgliesh è chiamato a comporre somiglia a una delle architetture narrative più classiche e amate del romanzo giallo, quello che va sotto il nome di enigma della stanza chiusa, e non solo perché Sally Jupp, la vittima, viene ritrovata morta nella sua camera da letto la cui porta risulta sbarrata dall’interno, ma soprattutto per il fatto la claustrofobia di quello spazio angusto e misterioso riverbera, grazie alla prosa dell’autrice, a un tempo asciutta e carica di angoscia, insinuante e minacciosa, quasi che il fatto di sangue su cui si investiga sia destinato a ripetersi, in tutti gli angoli di quella casa antica e fragile, dove ogni cosa, a partire da coloro che la abitano, pare sul punto di finire in pezzi. L’orizzonte cupo e chiuso di una dimora un tempo ricca torna a ogni pagina a stringere d’assedio il lettore, costretto ad accontentarsi dei frammenti di verità (e di menzogna) che emergono dai pazienti interrogatori di Dalgliesh; è come se nulla di quel che viene detto permetta di fare davvero luce sul mistero anche se dopo ogni colloquio qualche cosa viene alla luce. 

Ed ecco che la figura della vittima, perno dell’intero romanzo, diviene la misura dei colpi di scena sapientemente dispensati dall’autrice; quasi fosse soltanto un nome di pura finzione di volta in volta indossato da interpreti differenti, Sally Jupp, della quale la sola cosa che si sa per certo è che è madre, torna a manifestarsi nei pensieri, nelle azioni e nelle parole di coloro che le sono sopravvissuti (e che avrebbero avuto più di un motivo per eliminarla). A partire dal Stephen, l’amato figlio di Eleanor, che addirittura giunge, sorprendendo per primo se stesso, a proporre a Sally di sposarlo, fino ad arrivare a sua sorella Deborah, e a Catherine, amica di famiglia che, sospesa tra romantico sogno e crudele illusione, si ostina a considerarsi impegnata proprio con Stephen, all’impettita signorina Liddell, direttrice del ricovero per ragazze madri St. Mary, istituzione “di carità” che si occupa di accogliere queste giovani perdute e di offrire loro un’opportunità di riscatto sociale attraverso il lavoro, all’impassibile e cinico Felix Hearne, che con Deborah intrattiene rapporti che sarebbe riduttivo definire di semplice amicizia ed eccessivo giudicare amorosi, a Martha, la fedele governante, la realtà, riflessa nello specchio deformante di ogni singola personalità (gravata da segreti, bugie, paure, sospetti), si fa materia fluida, mutevole, difficile da afferrare, e come un meccanismo inceppato continua a ruotare sulla figura di Sally, impossibile unione d’opposti. Rispondere alla domanda chi era davvero Sally Jupp? è dunque il solo modo che ha Dalgliesh per trovare e arrestare l’omicida, una persona che tanto il poliziotto quanto il lettore sanno perfettamente essere lì, accanto a loro, nel cieco orizzonte di quella casa che, silenzioso e abile alleato del colpevole, non fa che celare quel che, con ingannevole imparzialità, sembra mettere in mostra.

Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Mondadori, è di Marco Buzzi. Buona lettura.

Esattamente tre mesi prima dell’assassinio avvenuto a Martingale, la signora Maxie aveva dato una cena.

3 commenti su “Un cieco orizzonte”

      1. A parte la bellezza della donna ritratta, lei ci parla nella tristezza e nella disperazione del compiuto e del non detto ma poi a parlare col silenzio è il corpo.

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