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Talleyrand e la blasfema bugia socratica

Recensione di “La rovina di Kasch” di Roberto Calasso

Roberto Calasso, La rovina di Kasch, Bompiani

“Il Nap di Naphta era l’uomo più ricco della terra. Ma la sua vita era la più breve e la più triste fra quelle di tutti gli uomini. Perché ogni Nap di Naphta doveva governare la sua terra solo per un certo numero di anni. Durante il suo regno i sacerdoti osservavano gli astri ogni sera, offrivano sacrifici e accendevano i fuochi. Mai una sera dovevano sospendere le loro preghiere e i loro sacrifici, altrimenti perdevano di vista il cammino di un astro e allora non sapevano quando, secondo la loro regola, il re doveva essere ucciso. Così si andò avanti per lungo tempo.

Un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro, i sacerdoti osservavano gli astri e riconoscevano il giorno in cui il re doveva essere ucciso. E una volta venne di nuovo il giorno della morte di un re […]. Il passato pre-cristiano è tutto un lungo processo di eufemizzazione, edulcorazione del sacrificio. Con Cristo, il sacrificio ritrova improvvisamente la sua crudezza, torna a svelarsi linciaggio – e al tempo stesso il ciclo del sacrificio viene sigillato, perché nessun sacrificio potrà far seguito a quello di Cristo, se non una continua commemorazione del sacrificio: la Messa, che pretende di sfuggire all’effusione di sangue […]. Più che l’atto di assimilare un pezzo di pane e qualche sorso di vino al corpo e al sangue del dio-vittima, ciò che segna una cesura invalicabile rispetto al precedente è che d’ora in poi non si uccidono più animali sugli altari […]. Con l’era cristiana scompare dal rito l’effusione di sangue: premessa per il dissolversi del rito stesso. Il passo successivo esige una versione secolare del sacrificio, col regicidio: Carlo I, quindi Luigi XVI, doppio sigillo; e, anche qui, un singolo, irreversibile fatto, l’uccisione di quella vittima, vale a introdurre un’età in cui non solo non si dovranno sgozzare i capri sugli altari, ma neppure commemorare i re decapitati. Poi la parola ‘sacrificio’ torna a trionfare nell’agosto 1914. Non si tratta ora di un meschino essere singolo: una intera generazione di anonimi viene innalzata alla nobiltà della vittima e calata nelle fosse, che ora sono trincee”. È l’idea di sacrificio (e la sua traduzione pratica nei secoli) il cuore narrativo di La rovina di Kasch di Roberto Calasso, non un romanzo, né un saggio e neppure uno zibaldone di riflessioni sparse, piuttosto, come suggerisce il sottotitolo, un arcipelago di storie, un’opera complessa, labirintica, volutamente opaca che guarda all’infinità del tempo e delle generazioni e al moltiplicarsi (anch’esso potenzialmente sconfinato) dei punti di vista – storico, filosofico, antropologico, poetico, letterario, scientifico, mitico – adottati per raccontare. Ognuna di queste prospettive, ci dice Calasso, in qualche misura rimanda a tutte le altre, le richiama, direttamente o attraverso le suggestioni più sorprendenti, permettendo a chi si assume la responsabilità della parola di operare il miracolo che della parola è l’essenza stessa: dire tutto, esprimere ogni cosa.

Raccogliere storie, aneddoti, dialoghi, citazioni, pensieri e molto altro ancora significa dunque, per Calasso, partire da un luogo e toccare ogni punto dello sterminato continente letterario, scegliere una voce che parli qualsiasi lingua. Quella cui decide di affidarsi appartiene a un uomo politico controverso, Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, non solo testimone ma misura del suo tempo (nacque nel 1754 e morì nel 1838), capace non solo di sopravvivere ma di governare realtà a tal punto diverse le une dalle altre da essere qualcosa di più della loro reciproca negazione. A ciascuna di esse – la monarchia di Luigi XVI, lo sconvolgimento della Rivoluzione francese, la nuova età di conquista e di dominio apertasi con l’avvento di Napoleone Bonaparte, la restaurazione conservatrice sancita dal Congresso di Vienna – Talleyrand non solo sopravvisse ma seppe sempre distinguersi, imporsi, rendersi indispensabile, ed è proprio così che ce lo consegna Calasso, nelle vesti di un interprete talmente infallibile del presente da riuscire, nell’oggi, a vedere già come sarà il domani: “‘Amava la vita del mondo di una volta, quale poteva viverla un uomo della sua condizione e della sua qualità: amava con passione le donne, il gioco e tutto ciò che componeva allora un uomo alla moda, e fu così che il 1789 trovò M. de Talleyrand’. Lo trovò anche dotato di un’abnorme perspicacia nel cogliere il procedere dei tempi. E in essa era già tutta la sua intelligenza politica”.

Lettura che fin dal principio si dichiara senza imbarazzo universale, La rovina di Kasch è un viaggio unico, uno scivolare allo stesso tempo onirico e razionale attraverso mondi sempre diversi e che tuttavia non cessano di somigliarsi; è una ricerca che ha il carattere della reminiscenza platonica e insieme un’esplosione di sapere che perfidamente, nel suo continuo rimandare ad altro, nel suo risalire a una irraggiungibile origine del tutto, alla scaturigine ultima, si fa eco della blasfema bugia socratica, di quel saper di non sapere che è la quintessenza della superbia; la sfida aperta al dio che aveva indicato proprio in Socrate il più sapiente di tutti gli uomini.

Eccovi l’inizio del libro. Buona lettura, se ve la sentite di affrontarla.

Parlo sulla soglia di questo libro perché sono stato l’ultimo che ha conosciuto le cerimonie. Parlo anche, come sempre, per ingannare. Non a me è dedicato questo libro, né ad alcun altro. Questo libro è dedicato al dedicare.

2 commenti su “Talleyrand e la blasfema bugia socratica”

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