Recensione di “La mia Africa” di Karen Blixen
“Quando ripenso ai miei ultimi mesi in Africa, mi sembra che le cose inanimate fossero consapevoli della mia partenza molto prima di me. Le colline, le foreste, le pianure e i fiumi. Tutto sapeva che ci dovevamo separare. Allorché cominciai a venire a patti col destino iniziando le trattative per la vendita della fattoria, l’atteggiamento del paesaggio verso di me cambiò.
Fino a quel momento io ne avevo fatto parte, la siccità era stata come una febbre, per me, la pianura in fiore come un abito nuovo. Ora la terra si staccava da me, si allontanava un poco perché potessi vederla con chiarezza, tutta intera […]. Gli indigeni della fattoria, con l’inflessibile realismo del loro spirito, capivano fino in fondo la situazione e il mio stato d’animo più che se avessi fatto loro una conferenza o avessi scritto un libro di confessioni. Ma continuavano a chiedere aiuto e sostegno a me; nessuno cercò di provvedere da solo al proprio futuro. Facevano del loro meglio per farmi restare, inventavano piani da affidarmi […]. C’è un momento paradossale nel rapporto tra il capo e i seguaci: il momento in cui essi, scorgendo chiaramente la sua debolezza e il suo fallimento, sarebbero in grado di giudicarlo con chiarezza e imparzialità. Eppure continuano a rivolgersi a lui, quasi che nella vita non abbiano altra strada da seguire. Lo stesso sentimento prova forse il gregge verso il pastore; conosce infinitamente meglio della sua guida i luoghi e il clima, eppure continuerà a seguirlo, se necessario, fin nell’abisso. I kikuyu avevano accettato la situazione meglio di me, per la loro maggiore dimestichezza con Dio e con il Diavolo. Malgrado ciò sedevano intorno a casa mia, aspettando i miei ordini; probabilmente non parlavano d’altro, tutto il tempo, che della mia ignoranza e della mia incredibile incapacità. Si penserà che fosse duro averli sempre là dinanzi, sapendo di non poterli aiutare e sentendomi sulla coscienza il peso del loro destino. Ma non era così. Sia io che loro, al contrario, trovavamo uno strano conforto e sollievo nello star vicini. La comprensione che ci legava aveva radici più profonde di ogni ragionamento. Pensavo spesso, in quei mesi, alla ritirata di Napoleone da Mosca. Si crede in genere che egli abbia passato giorni di disperazione, vedendo i suoi soldati soffrire e morire intorno a lui; ma, forse, senza di loro non avrebbe potuto sopravvivere. La notte contavo le ore aspettando il momento in cui i kikuyu sarebbero tornati a sedere davanti alla mia casa”. Forse è solo prendendo le mosse dalle ultime pagine, quelle che documentano la sconfitta, la resa di Karen Blixen, obbligata a vendere la fattoria nella quale visse per oltre quindici anni (dal 1914 al 1931) e l’annessa piantagione di caffè, che si può comprendere davvero il suo splendido, ipnotico, commovente romanzo La mia Africa (in Italia pubblicato da Feltrinelli nella traduzione di Lucia Drudi Demby), partendo proprio dalla straordinaria intensità del titolo.
Perché in quell’aggettivo possessivo mia sta tutta la meraviglia della prosa della Blixen; è lì, in quel mia che si riflette per intero l’Africa da lei non solo vissuta e immensamente amata ma più di tutto interiorizzata, fatta propria. Dinanzi ai suoi occhi, quel luogo che è infiniti luoghi, quella ininterrotta teoria di meraviglie, così intensa da superare di slancio la semplice, banale perfino, bellezza di un paesaggio per arrivare a sfiorare il concetto stesso di perfezione, giunge a trasformarsi, a mutare, come fa un corpo vivo, divenendo qualcosa di estraneo, di inconoscibile, di impossibile da raggiungere e comprendere, qualcosa di simile a una divinità, oggetto di devozione e preghiera, e insieme quella caratteristica distintiva, unica che definisce la singolarità; mia, che appartiene a me, riguarda me e me soltanto.
E l’Africa di Karen Blixen, della sua fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong, dei suoi lavoranti, degli imperscrutabili Masai che abitavano la riserva non lontana dai suoi possedimenti, degli animali che erano dovunque (indimenticabili le pagine dedicate all’antilope Lulu – “che in suhaeli significa perla” – a lungo allevata in casa prima di tornare, una volta “sposata”, alla incondizionata libertà della natura), dei suoi amici europei, anch’essi conquistati da quel continente al punto da essere, ognuno, la propria Africa, è un mosaico sempre identico e ogni ora cangiante, un’unità essenziale in una molteplicità di fenomeni. Così, a ben guardare, sono i sogni. E coloro che li sognano.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
In Africa avevo una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong. A un centocinquanta chilometri più a nord su quegli altipiani passava l’equatore; eravamo a milleottocento metri sul livello del mare.