Recensione di “La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne
“Ciò che Hawthorne imparò negli anni di solitudine, trascorsi fra gli specchi di una stanza, non si riduce soltanto alle metafore del ghiaccio e del fuoco. Da quello sfondo provengono anche le trame dei suoi racconti; poco a poco si venne anche presentando un individuo orgoglioso che si era autoescluso dal contesto sociale e che pure soffriva le pene della solitudine. Le sue storie riflettevano la tensione conflittuale fra istinti e convinzioni puramente razionali […].
Quest’uomo che abitava fra i fantasmi era, per un lato del suo carattere, un rude abitante della Nuova Inghilterra, in tutto simile ai magistrati e ai capitani di mare dai quali discendeva. Ed una costante duplicità si rinviene sempre nel suo carattere: fu un individuo orgoglioso fino alla fine dei suoi giorni, ma seppe anche inchinarsi con grande umiltà. Era gelido e sensuale, torpido e alacre, radicale e conservatore; un visionario con un senso concreto del denaro. Queste contraddizioni, queste tensioni interiori, conferirono energia alla sua narrativa e fecero dell’autore l’oggetto di uno studio senza fine”. Queste parole di Malcolm Cowley, citate nell’introduzione all’edizione italiana de La lettera scarlatta (BUR, traduzione di Bruno Tasso), il lavoro più noto dello scrittore americano Nathaniel Hawthorne, aiutano a orientarsi nel labirinto di un romanzo semplice solo in apparenza che, al di là di un’ampollosità di linguaggio a volte eccessiva (e tuttavia indispensabile per restituire quanto più possibile intatta al lettore del tempo – il libro venne pubblicato nel 1850 – e a quello di oggi, l’atmosfera teatralmente cupa dell’America (allora Nuova Inghilterra) del XVII secolo, soffocata dalle menzogne e dall’ipocrisia del fanatismo puritano, disposto a tollerare qualsiasi silenzio e ogni genere di menzogna pur di non intaccare quella parvenza d’ordine, quiete, pace e formale timor di Dio che doveva essere purissimo tratto distintivo della propria organizzazione sociale, e di una costruzione dei caratteri rischiosa, giocata esclusivamente su violenti contrasti emotivi e su opposizioni nettissime (coraggio-vigliaccheria; vendetta-perdono) di volta in volta incarnate dai protagonisti della storia, non teme di affrontare un argomento arduo e nei fatti inesauribile qual è la verità, considerandola tanto dal punto di vista del suo significato (posto che davvero ne abbia uno per l’uomo) quanto da quello del suo intrinseco valore. Cos’è infatti la verità, chiede Hawthorne mentre racconta, al termine di una lunga introduzione che è già pienamente romanzo e che pure dalla Lettera vera e propria si discosta per tono, stile e respiro narrativo, dell’adultera Hester Prynne, condotta fuori dalla prigione assieme alla sua bambina nata da pochi mesi ed esposta alla ferocia perbenista della comunità cui non ha più diritto di appartenere dopo essersi macchiata di quell’orrendo peccato carnale, la cui fedeltà a una propria verità del sangue e del cuore la obbliga a tacere dinanzi a tutti il nome del padre della piccola? Che senso ha quel “vero agli occhi del Signore” che l’intero villaggio pretende da lei di fronte a quel che questa donna ha di più sacro: l’uomo che ha amato e ama e la bambina che è venuta al mondo? E ancora, che valore può avere la verità, a parole tenuta in così gran conto dall’umano consesso, se paragonata alle finzioni e alle macchinazioni del marito di Hester, da tutti creduto morto e invece tanto vivo da figurare, naturalmente sotto mentite spoglie, tra i membri più eminenti di quella comunità a prima vista così perfetta?
Né l’interrogare del grande scrittore americano si chiude qui, ma anzi torna con ancor maggiore vigore nelle pagine dedicate al più tormentato dei suoi personaggi, il segreto amante di Hester e padre di Pearl, giovane insuperabile in sapienza, dottrina e fede, così splendido nella sua vicinanza al Signore da essere considerato alla stregua di un santo e nello stesso tempo, nella sua carne di uomo e peccatore, consumato dal rimorso; vittima, certo, come vittime siamo tutti del semplice fatto di essere uomini, ma ancor più, e proprio di fronte a quella verità disincarnata e assoluta venerata quasi fosse l’immagine di Dio, colpevole; colpevole di non avere la forza di Hester, di accettare il martirio della propria coscienza, cui fa da spietato contrappeso l’ignara adorazione del mondo, in luogo di una pubblica ammissione di responsabilità; colpevole, infine, di stimare peggiori le sofferenze figlie del suo silenzio rispetto alle umiliazioni patite da Hester Prynne, capace, per amore, di abbandonarsi senza riserve allo sconsiderato odio del prossimo. Di fronte a tutto questo, domanda Hawthorne, quale importanza può avere la verità costruita secondo il metro dell’uomo?
Poco importa che a questi interrogativi il romanzo non sappia offrire una risposta chiara, perché in realtà quel che dalle pagine della Lettera scarlatta emerge è molto di più; è la figura terribile e splendida di Pearl, figlia di una colpa che non è una colpa e di una verità asservita alle convenienze, e dunque indomabile e ribelle. Ribelle come solo può esserlo l’innocenza.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
È curioso come io, poco incline come sono a parlare di me e delle cose mie ai miei amici accanto al fuoco, per la seconda volta in vita mia, nel rivolgermi al pubblico, mi lasci vincere da un impulso autobiografico.
Avevo provato a leggere La lettera scarlatta molti anni fa, forse troppo ragazzina ancora; dovrei dargli un’altra possibilità, forse.
Non sarebbe una cattiva idea. Se deciderai di farlo ti auguro fin d’ora buona (ri)lettura.